Thrice Upon a Time, ovvero “c’erano tre volte”, il film conclusivo di Neon Genesis Evangelion, è uscito ormai da più un mese. Abbiamo dovuto aspettare 8 anni dall’uscita del precedente film, 13 se si conta dall’inizio della saga Rebuild, e 26 dalla prima messa in onda della serie. Una gestazione lunghissima del regista Hideaki Anno, che regala agli appassionati un terzo finale in grande stile carico del suo percorso umano e autoriale, recuperando ed evolvendo gli elementi storici della serie che diventano il nucleo su cui si regge l’intero film.
Evangelion ha sempre avuto un significato speciale per gli appassionati. Molti ne hanno apprezzato i misteri, alcuni hanno ritrovato sé stessi nei protagonisti, altri ancora si sono fatti travolgere dalla visione del regista. Non è un’opera che può restare indifferente se le si apre il proprio cuore. La sua conclusione è un avvenimento che verrà ricordato a prescindere dai gusti personali, data l’importanza che il franchise ha avuto per l’animazione mondiale e non solo.
Togliersi un peso
Ciò che ha sempre contraddistinto la serie sono state la narrazione oscura e criptica, lasciata spesso all’interpretazione dello spettatore, insieme al dubbio ed al disorientamento, elementi che il regista sfrutta per catapultarci all’interno di un’allegoria dell’incomprensione tra gli esseri umani. L’incapacità dei protagonisti di aprire i propri cuori e di comunicare con il prossimo è perno e fondamento su cui poggia l’intera trama.
In questo Thrice Upon a Time è spiazzante. Sperimentiamo insieme ai protagonisti, atmosfere inedite: la narrazione si fa più chiara (per quanto sempre surreale), meno ansiogena e meno “epilettica”, accompagnandoci dall’inizio e dandoci gli strumenti per capire ciò che ci circonda.
I nostri children attraversano una crescita che li porta ad essere più sinceri tra loro e onesti con sé stessi. Finalmente gli viene dato del tempo per capire, crescere, decidere, diventare adulti. Possibilità che all’interno dell’universo narrativo viene anche rappresentata tramite la rottura quella chiamata maledizione degli EVA, ma che non possiamo fare a meno di associare al fenomeno reale della fuga dalla realtà che affligge tantissimi ragazzi.
L’unica cosa che può fare un padre per un figlio è dargli una pacca sulla spalla, oppure può ucciderlo
Evangelion è sempre stata una storia di genitori e figli. È proprio dai genitori, intesi come figura archetipica, che nascono i mali dei protagonisti. In questo caso Anno, che ci aveva abituato alla figura del “genitore carnefice”, ci mostra delle figure genitoriali positive, che si caricano sulle spalle i figli e le loro paure. La redenzione di questi personaggi rispetto ai peccati commessi nelle opere precedenti ha una funzione catartica anche per noi spettatori.
Infatti la sensazione è quella di averci tolto il peso della visione pessimistica cui eravamo affezionati. Il regista in questo caso grida veramente AMore nel cuore del mondo. Ci dice che non esistono solo padri terribili e madri indifferenti, ma che è possibile anche il contrario, demolendo al tempo stesso quella loro aura di onnipotenza per lasciare invece spazio all’umanità.
Leggendo tra le righe
L’entità di questa operazione possiamo comprenderla appieno se si considera il percorso umano del regista accanto a quello autoriale. Se la serie ed il film The End of Evangelion sono state le opere che lo hanno consacrato, ma anche quelle legate maggiormente alla sua sofferenza personale, i Rebuild, e soprattutto Thrice Upon a Time, sono stati l’occasione per poter raccontare nuovamente quelle storie alla luce della propria crescita interiore. L’autore ci comunica questa sua crescita proprio tramite quella dei suoi personaggi, che maturano insieme alla serie stessa facendole acquisire un significato ancora più grande.
Infine, al termine di quest’incredibile percorso, quei vuoti tra le persone che ci sembravano incolmabili, quelle distanze che ci sembravano irraggiungibili, vengono semplicemente riempiti da una parola d’affetto, da una dichiarazione d’amore, da un’ammissione di colpa. In questo finale Hideaki Anno demolisce le mura dell’animo umano, mostrandoci la consapevolezza che essere amati ci è concesso. Un messaggio che può sembrare banale, ma che, in realtà, è di una potenza straordinaria.