MEGALOPOLIS, il nuovo film di Coppola – [Recensione ]

festa del cinema megalopolis trailer italiano del film di francis ford coppola con adam driver

Recensione di Megalopolis, il nuovo film di Coppola sulla distopica New Rome con protagonista Adam Driver e Nathalie Emmanuel

L’hype per questo film era cresciuto sempre più con l’uscita dei trailer, ma devo ammettere che nell’ultimo mese avevo iniziato a pensare al peggio: un film realizzato solo per il nome Coppola alla regia e non per la sua qualità. Dopo la visione del film sono contento di poter dire che i miei presagi erano sbagliati: questo film è un bel film! C’è da capire in che termini, ma ora ve lo illustro.

Megalopolis, a mio avviso, è un film che tratta molte tematiche e lo fa attraverso una storia, che Coppola definisce fiaba, ambientata in un mondo sostanzialmente allegorico. Ogni personaggio o luogo è un’allegoria di una determinata caratteristica della società contemporanea.

Perché sì, nonostante talvolta alcuni elementi della storia risultino incompatibili con il nostro mondo e che semplicemente Coppola stia narrando la storia, seppur interessante, di personaggi immaginari che non hanno corrispondenze con il nostro mondo, in realtà tutto ha un senso in questo grande progetto.

Purtroppo credo anche che questa volontà di rappresentare tante tematiche in un solo film produca un effetto straniante durante la visione del film, che non è necessariamente un lato negativo, ma probabilmente occorre vederlo una seconda volta per comprenderlo maggiormente.

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JOKER: Folie à Deux recensione

La trama gira intorno a personaggi dei piani alti della società e vengono dipinti, in modo didascalico come d’altronde è la pellicola intera, come il marcio della società, che però controllano in un mondo in cui il potere è distribuito tra che detiene le risorse. E tutti i personaggi hanno un lato oscuro e un lato chiaro.

Ceasar rappresenta l’homo novus che vorrebbe cambiare il mondo ma che viene ostacolato dai potenti, sebbene anche lui abbia un suo lato oscuro fatto di scheletri nell’armadio e traumi non superati. Il Megatron in senso proprio rappresenta la chiave dell’utopia di Ceasar che io ho rivisto nell’IA, ma che probabilmente vi assomiglia solo in questo momento storico e Coppola intendeva semplicemente un qualcosa di nuovo.

Le vicende che si susseguono in una serie di dinamiche abbastanza archetipiche culminano in un finale che fa ben sperare, trasformando una storia di personaggi grigi, nessun personaggio è solamente positivo, in una storia a lieto fine, quasi con un “e vissero tutti felici e contenti.” Che ho trovato un po’ forzato ma che in fondo è un buon auspicio per un mondo che sta marcendo da dentro e che attende qualcuno che ne ristabilisce i paradigmi di giustizia ormai perduti.

Il film ha un’ampia portata di tematiche, tra cui anche temi intimi, poiché il protagonista è e rimane Ceasar, di cui seguiamo le vicende da vicino, affrontando come lui i demoni di una vita fatta di maschere e ingiustizie. Non mi sento di voler interpretare tutto ciò che accade all’interno della pellicola (in primis la capacità di fermare il tempo), ma riconosco la grandezza di questo film.

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Un film monumentale, che fa del lato tecnico un suo pregio ma che cerca nelle vicende narrate di veicolare un messaggio attraverso le allegorie di personaggi e luoghi che efficacemente restituiscono allo spettatore la rappresentazione della società contemporanea marcia con l’espediente narrativo della New Rome e dei suoi usi e costumi. Un film complesso che lascia in eredità tante riflessioni su temi universali.

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GLI ANELLI DEL POTERE St. 2 – [Recensione]

gli anelli del potere

Recensione de “Gli anelli del potere” St. 2, la serie Prime più discussa del momento ma anche la più vista, tratta dagli scritti di Tolkien

Ed eccoci giunti al termine della seconda stagione della serie più chiacchierata del 2024 ma anche quella che attendevo di più: Gli anelli del potere. Dopo una prima stagione abbastanza soddisfacente, con una gestione delle sottotrama talvolta disorganizzata, tornano le avventure della Terra di Mezzo.

Premesse doverose che in questa stagione acquistano ancora più valenza: questa serie non ha l’intento di mantenere la scelta del tipo di contenuto che caratterizza gli scritti di Tolkien. Tolkien scrive dei miti, delle storie che hanno ruolo allegorico, le razze hanno un significato, i luoghi hanno un loro significato, i personaggi hanno un loro significato.

Questa serie è figlia dell’epoca dello spin off e del sequel, il che vuol dire che difficilmente c’è spazio per l’allegoria. Sauron, che nel Signore degli anelli è l’incarnazione del male, il male per definizione, qui assume tratti umani, con suo passato, con una sua origine. Dunque, è chiaro che se anche del mentore si va a raccontare il passato quando non era mentore ma uno sprovveduto, questa prospettiva non la si cerca in nessun modo.

Detto ciò, accettate le premesse, possiamo analizzare la serie per quel che è, all’infuori del canone Tolkeniano, sempre ovviamente considerando i dovuti paragoni e coerenze. La serie mi è piaciuta, seppur non sempre omogenea. Trovo abbiano fatto dei passi avanti notevoli e sono contento dei risultati ottenuti.

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JOKER: FOLIE A DEUX, recensione

La prima correzione è stata la gestione delle linee narrative. In questa seconda stagione hanno deciso di limitare le sottotrame per episodio, cercando sempre di averne due principali massimo per puntata, evitando così il minestrone e concentrandosi di più sulle evoluzioni delle varie storie.

L’uso dei personaggi è assolutamente pregevole. Tutti hanno il giusto spazio, senza lasciare protagonisti e perfino Sauron non assume il ruolo centrale che qualcuno vorrebbe. Credo che siano stati molto bravi nella gestione delle relazioni che questi personaggi creano tra di loro, originando storie interessanti e intrattenenti.

Ed è proprio l’intreccio delle varie storyline che rende questa stagione migliore della prima, dove ancora, forse inevitabilmente erano tutte un po’ a sé. Qui invece si uniscono e trovano risvolti narrativi molto interessanti. Le più riuscite secondo me sono Numenor e Eregion, ma quasi tutte mi sono piaciute.

Un po’ meno la storyline di Isildur e quella dei Pelopiedi e dello Straniero, ma comunque apprezzabili (non da me in toto). Poi ci sarebbe molto da parlere delle varie scene che hanno creato scandalo e che sinceramente potevano anche risparmiarsi, insomma delle scelte un po’ politiche ma che ho deciso di ignorare, in fondo ragazzi sono serie tv  e Tolkien rimarrà Tolkien anche con questa serie.

Gli Anelli del Potere Tom Bombadil uno dei personaggi preferiti dai fan comparira nella seconda stagione della serie

In conclusione, una seconda stagione che se vista con i filtri giusti riesce ad intrattenere molto, creando delle sottotrame molto interessanti che vedono l’incontro delle storie della prima stagione e nuovi snodi narrativi che ho apprezzato molto. Finalmente hanno deciso di concentrarsi meglio nelle singole storyline evitando il minestrone della prima stagione. Lato tecnico sempre eccellente.  

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JOKER: FOLIE À DEUX – [Recensione]

joker 2

Recensione di “Joker: Folie à Deux”, il sequel del successo di Todd Phillips che torna alla regia insieme a Phoenix e Lady Gaga come attori

Questo film era quello che attendevo di più del 2024, essendo io grande fan del primo Joker, che stato un film evento, vincitore di oscar e che ha incassato un miliardo di dollari. C’era dunque una notevole quantità di hype per questa pellicola che all’annuncio fece impazzire tutti e non aspettavo altro che fare la recensione di questo Joker: Folie à Deux.

Dopo le prime dichiarazioni di Todd Phillips sul fatto che questo sequel sarebbe stato un musical, subito iniziarono le prime polemiche e le prime storture di nasi, ma sinceramente i primi trailer mi avevano genuinamente catturato, anche se non riuscivo a capire dove sarebbero voluti arrivare.

Dopo la visione ho provato una profonda delusione per una pellicola che si distacca dalla sua precedente per tono e contenuti. Uscito dalla sala non sono riuscito a provare che un profondo rimpianto per un’idea che alla fine del film mi aveva anche convinto ma distribuita male all’interno del film.

Joker: Folie à Deux è la decostruzione del personaggio di Arthur Fleck messo in scena nel primo film come un idolo da prendere come modello, capace di criticare il marcio della società, ribellarsi ai potenti e trascinare con sé folle di persone, divenuto poi dopo l’uscita del film un’icona pop assoluta. In Folie à Deux Arthur viene dipinto solo come uno squilibrato e un serial killer quale è, senza tentativo di difenderlo ancora e giustificarlo.

L’idea di Phillips è quindi di distruggere il personaggio che ha creato, concludendo con la parte finale che mette a nudo la verità dietro di tutto, facendo anche perdere ad Arthur l’unica cosa che adesso era riuscito a conquistare, un buon motivo per continuare a vivere. Nel processo infatti è chiaro che non ci sia l’intenzione di farlo passare per innocente, anzi sembra che tutto il processo ridicolizzi Arthur che non è più quel fenomeno da spettacolo ma un fallimento.

La sua fuga non va a buon fine e il modo un cui si conclude il film rappresenta proprio ciò che è Joker, ossia con una morte cruda e ucciso da uno psicopatico. E questo un po’ giustifica la volontà iniziale di Phillips di non volere un sequel per il primo Joker.

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Deadpool & Wolverine recensione del nuovo film Marvel

Per quanto l’idea mi abbia convinto è la sua messa in scena che non mi ha convinto del tutto. La scelta del musical come proiezioni e illusioni di Arthur è azzeccata nella sua prospettiva, ma secondo me è mancato quel qualcosa che le rendesse davvero parte della storia. Inoltre la sceneggiatura è piena di momenti anticlimatici che non fanno davvero partire il film che rimane per tutta la pellicola una lunga introduzione che prepara a qualcosa che non arriva mai.

Ed è forse questo qualcosa che lo spettatore aspetta per tutto il tempo rendendo ogni snodo narrativo l’ennesimo risvolto dello stesso impasto che non arriva mai ad essere steso per farci la pizza ma viene impastato per due ore. Metafore culinarie a parte, forse lo spettatore si aspettava tutt’altro e rimane perennemente con l’amaro in bocca. Nel finale poi capisce tutto, le vere intenzioni del regista ma ormai è troppo tardi, e il film è già stato odiato.

Io sinceramente riesco a freddo comprendere tutte le intenzioni di decostruzione che da un punto di vista del messaggio ha comunque un suo peso, ma forse la messa in scena è fin troppo scialba per un’idea che poteva essere messa in pratica in modo migliore. “A sto punto preferivo il sequel che tutti volevano”.

Ultime parentesi tecniche, Lady Gaga come Harley Quinn è poco Harley Quinn, per quanto abbia senso il suo personaggio ha poco valore all’infuori delle scene cantate. La regia non ha particolari guizzi, nonostante abbia apprezzato molto le scene intime. La fotografia mi ha convinto mentre la colonna sonoro ho fatto fatica ad apprezzarlo, a parte i capolavori di Sinatra, che vabbè.

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In conclusione, Joker: Folie à Deux è la decostruzione del personaggio del primo film creato da Phillips, che da idolo delle masse e critica della società rivela la sua vera natura di squilibrato mentale. L’idea dunque di distruggere il concetto del Joker mi avrebbe anche convinto, ma il modo scialbo con cui viene messo in scena il declino di Arthur Fleck rende il film sul pratico un insuccesso, che fa però riflettere.

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DEADPOOL & WOLVERINE, il nuovo film Marvel – [Recensione]

deadpool e wolverine uscita ebd

Recensione di Deadpool & Wolverine, il nuovo film Marvel che conclude la trilogia con protagonista Ryan Reynolds, stavolta con Hugh Jackman

Dati gli ultimi esiti della Marvel, sono andato in sala con aspettative bassissime. La formula personaggi nuovi con vecchie comparse ho sempre fatto fatica a concepirla, a credere in quello che vedevo sullo schermo, dunque vedere Hugh Jackman di nuovo in costume mi faceva proprio strano.

Ma per fortuna nemmeno la Marvel sembra molto convinta di questa strada, o meglio ha deciso, almeno in questo caso, di non prendersi sul serio. E lo ha fatto col personaggio che più poteva cavalcare questa onda, ossia Deadpool, con la sua inconfondibile quarta parete.

Deadpool & Wolverine è infatti una gran cazzatona, un pretesto per far menare per bene due personaggi Marvel, vederli prendersi a pizze e vedere tanto sangue. In questo per me Shawn Levy è stato molto bravo, regalandoci sequenze davvero fighissime, tanto che pareva di vedere Mortal Kombat (il videogioco, non il film).

Il punto debole è inevitabilmente la scrittura, che seppur funzioni, lascia molto perplessi sulla sua validità. Per intendersi, se i personaggi non fossero quelli ma altri, qualsiasi produttore avrebbe bocciato una sceneggiatura che si basa su un personaggio il cui passato non vediamo mai e uno il cui desiderio scatenante è accennato all’inizio del film e basta. Insomma, un arraffazzonamento di idee che non sono sbagliate ma poco valide.

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Recensione Un oggi alla volta, la nuova commedia romantica di Nicola Conversa

A partire da Deapool che vuole entrare negli Avengers, all’ancora universale, al Mister Paradox, il ripper temporale, alla sorella di Xavier e al vuoto della Fox. Troppe cose presentate in un terzo capitolo della saga e tanta, tanta sospensione dell’incredulità, che anche loro sono consapevoli di aver richiesto ma non tutti sono disposti a concedere.

E poi purtroppo si torna sempre lì, il messaggio finale, la conclusione dell’arco narrativo dei personaggi è talmente banale e tirato, che si rimpiangono i vecchi film. Va bene che la Marvel è questo, ma credo che ancora si possano raccontare delle belle storie con questi personaggi, storie profonde e che hanno un bel messaggio da veicolare.

deadpool & Wolverine

In conclusione, un film divertente e spensierato con scene d’azione davvero fighissime, ma con una trama davvero risicata e che lascia davvero perplessi. Un pretesto per far picchiare Deadpool & Wolverine e prendere in giro la Disney come la Fox. Un terzo capitolo non all’altezza dei primi due ma che regala tanto intrattenimento.

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UN OGGI ALLA VOLTA, la nuova commedia romantica con Cassissa – [Recensione]

un oggi alla volta

Recensione di “Un oggi alla volta”, la nuova commedia romantica con Cassissa, prima opera di Nicola Conversa con Katia Follesa e Cesare Bocci

Oggi ho deciso di andarmi a guardare il primo film di Nicola Conversa, che mi aveva convinto nel suo corto a Venezia “La bambola di pezza”. Curioso anche per la conferma della collaborazione con Cassissa, in un afoso lunedì di luglio e con aspettative piuttosto basse.

Dopo la visione sono davvero contento di essermi ricreduto, per un film dal gusto italiano ma con la freschezza di una regia delle intuizioni, seppur caute in quanto prima opera, pregevoli.

Un oggi alla volta è una commedia romantica rivolta a un target giovane, di cui io faccio parte, che sa toccare nei suoi snodi più cruciali la sintesi della vita adolescenziale. La narrazione che gira intorno a Marco costruisce la figura del ragazzo medio, dalla situazione scolastica, al rapporto con i genitori, dalla sfera relazionale, alla imprevedibilità degli eventi che gli accadono.

La ricerca del film dunque di empatia da parte dello spettatore è chiara. La ragazza che ti piace non ti risponde, poi quella con cui ti scrivi non vuole vederti, per lei fai cose stupide, ti innamori, poi per caso finisci per vederti sempre. Una storia normale, che scena dopo scena ripercorre quella che un po’ tutti abbiamo avuto.

Fin dall’inizio si respira quell’aria di familiarità, che quella storia stia parlando proprio a noi e che possa raccontare le gioie e i dolori che tutti abbiamo vissuto. Poi però la storia prende un’altra piega. Improvvisamente non riusciamo più a rivederci in quello che accade. Quell’amore tanto simile al nostro non si concilia più con le emozioni del protagonista. La narrazione assume delle ombre e tutto sembra che si concluderà col solito epilogo dell’amore che vince contro la malattia. Iniziano a risuonare le premesse “io voglio solo innamorarmi” che sta benissimo con “ti amerò anche se finirai in carrozzina”.

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Recensione Civil War, la distopia attraverso un obiettivo

E qui il colpo di scena, che come tutti i colpi di scena è prevedibile quanto sorprendente. Il finale, quel finale, non parla direttamente a noi, che volevamo la storia d’amore dei nostri sogni, che vorremmo che i protagonisti si baciassero per 1h e 40 di fila così ci illudiamo ancora. Parla a Marco. A quella storia lì.

Il film non ha la pretesa di voler veicolare un messaggio universale. Un oggi alla volta, se vogliamo essere banali, vuol dire tutto, se non vogliamo esserlo, vuol dire nulla. A Marco, come noi tutti, non vuol dire nulla, perché noi tutti vogliamo solo innamorarci. Ad Aria vuol dire tutto, perché alcune sfide vanno affrontate piano piano.

Ed è qui che forse il film pecca più di tutto. Questa pretesa di rivolgersi solo a chi ha affrontato una malattia così grave in giovane età talvolta cozza con questo desiderio di raccontare il ragazzo comune, con i problemi di tutti. Un oggi alla volta è dunque vivere la vita secondo i nostri sentimenti senza dover programmare e aspettare, come Aria, finendo per non avere il tempo, oppure è vivere affrontando la maturità, le audizioni, la malattia un passettino alla volta?

La sensazione durante i titoli di cosa è di distruzione emotiva, ma questa distruzione riguarda solo Marco, non me e quindi sì, forse piangiamo, ma il mio modello di vita è rimasto intatto. E da una parte questa cosa mi ha fatto sentire bene nonostante la devastazione, dall’altra mi ha fatto rosicare perché poteva davvero diventare una storia catartica.

un oggi alla volta

Detto questo sono sorpreso da una regia coraggiosa, dalla semina in sceneggiatura che ritorna piano piano nel corso della pellicola, dalle frasi che tornano maledettente e dalla capacità straordinaria di Conversa di accarezzare lo spettatore è toccarlo nel profondo, anche talvolta con poesia. Il film si presenta con la giusta assurdità da commedia e con la giusta dose di romance.

Un post scriptum di elogio ad Andrea Stocchino per ARIA, che ho ascoltato in loop dopo la visione. 

In conclusione, una commedia romantica dal gusto italiano ma con una freschezza singolare, soprattutto nell’approccio alla storia che vuole raccontare, senza troppe pretese narrative ma anzi con una umanità che travolge. Una storia viva che si rivolge a tutti toccando le giuste corde di un pubblico giovane.

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FURIOSA: A MAD MAX SAGA – [Recensione]

Mad Max Il regista afferma che ha gia un nuovo prequel da produrre dopo Furiosa

Recensione di Furiosa: a Mad Max Saga, il nuovo film del franchise di Fury Road con Anya Taylor-Joy e Chris Hemsworth per la regia d MiIller

Avevo basse aspettative per questo film, in quanto ho amato Mad Max Fury Road e non voleva crearmi troppo hype per un film che esce 9 anni dopo ed è un prequel, soprattutto usando sembra che i produttori allarghino i franchise solo per avere il nome famoso per il proprio film.

Ma in realtà questo film mi ha davvero soddisfatto. È il classico film a cui avrei dato 8,5 se dessimo i voti a mezzo, ma è proprio tra quelle pellicole che sfiorano l’ottimo e sono molto più di buono. Ha superato di gran lunga le aspettative.
Miller riporta in sala il mondo distopico che avevamo amato nei precedenti capitoli della saga non variandone in nessun modo la natura e le caratteristiche. Stavolta però dà molto più spazio ai dialoghi e alla narrazione, mantenendo tuttavia l’azione nella maggioranza delle sequenze e evitando gli spiegoni didascalici.

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Miller vorrebbe fare un altro prequel oltre a Furiosa

Furiosa è in tutto e per tutto un film di intrattenimento dai toni epici e dal messaggio attualissimo in sottofondo, capace di non calare mai nella qualità degli effetti speciali e della componente action.
La trama, seppur semplice, è certamente più articolata del suo precedente, e talvolta si dilunga in frangenti piuttosto superflui, facendo risultare a tratti il ritmo leggermente lento. Alla fine non si accusano troppo le due ore e mezza, ma forse avrei asciugato alcune parti, forse l’inizio.

Anya Taylor -Joy è assolutamente all’altezza del ruolo, così come Chris Hemsworth, che più che l’antennista risulta uno degli antagonisti. Poco sviluppato ma centrato è il personaggio di, che fa da versione embrionale di Max.
E forse questa è l’unica cosa che fa storcere il naso: il tentativo di strizzare l’occhiolino allo spettatore per fare il paragone con Fury Road. Che forse è più un autoreferenzialismo…non stucca, sia chiaro, m talvolta sembra non necessario.

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fuiriosa

In conclusione, il film è un ottimo bluckbuster che intrattiene con qualità negli effetti speciali, nella componente action e nella regia. La trama, stavolta più articolata, dà spazio ai personaggi e ai meccanismi del mondo di Mad Max. Peccato per alcune parti inutilmente lente che fanno sentire le due ore e mezza.

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CIVIL WAR, la distopia attraverso un obiettivo – [Recensione]

civil war recensione popspace

Recensione di “Civil War”, una storia distopica raccontata attraverso un obiettivo di giornalisti di guerra, dalla regia di Alex Garland

Le aspettative per questo film erano davvero neutre, non avevo alcuna pretesa se non vedere la parte action ben diretta come Garland, il regista, è solito portare in sala.

Ma la cosa che più mi ha colpito di questa pellicola è stato il modo in cui hanno portato in scena una tematica più volte trattata, soprattutto sul piano narrativo e registico. Infatti per me la scelta del giornalismo di guerra è assolutamente azzeccato per la storia che hanno voluto narrare.

Il film è ambientato in un’America post apocalittica in pratica, dove è scoppiata una guerra civile sanguinosa e devastante per tutto il paese. La narrazione ci porta a seguire le vicende di quattro giornalisti, il cui intento è andare a intervistare il presidente degli Stati Uniti. Il lungo viaggio per Washington dà l’occasione ai personaggi di conoscersi ma anche di documentare gli orrori che vedono e di cui hanno esperienza. Ormai è un far west, e in ogni luogo in cui si fermano qualcuno prova ad ucciderli.

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L’espediente più interessante è l’uso della fotografia, attraverso cui le scene vengono spesso raccontate, per frame, per immagini scattate dai giornalisti. Infatti si creano degli effetti visivi e sonori molto efficaci, per cui nel mezzo di una scena action movimentata e in cui le raffiche di spari sono protagonisti, le fotografie in bianco e nero appaiono a schermo, fissando da un altro punto di vista ciò che sta accadendo, in modo spesso crudo ma allo stesso tempo scenicamente spettacolare.

Le vicende hanno sempre una grande efficacia narrativa, riuscendo sempre a tenere la tensione alta, ma a mio avviso l’intreccio ha un inizio, sviluppo e conclusione piuttosto deboli, non in credibilità, ma quasi in livello di esser interessanti. Il film non racconta nessun viaggio psicologico ma le vicende di personaggi le cui personalità sono solo scalfite ma mai approfondite.

L’impressione a fine film è stata di aver assistito a un viaggio, seppur di intensa umanità, sterile. Forse perché non si spiega mai come mai c’è una guerra civile in America, forse perché non c’è un epilogo ma solo un finale, ma inevitabilmente la mia reazione è stata “sì, ok e quindi?”

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Al di là però di questa occasione sprecata per lanciare un messaggio forte, la messa in scena della storia è ben diretta e scritta in modo molto efficace, tale da tenere la tensione sempre alta. L’espediente delle fotografie conferisce non solo spettacolarità  alla pellicola, ma racconta un lato spesso in secondo piano delle crudeltà delle guerre.

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Final Fantasy VII Rebirth, un’imperfetta meraviglia [Recensione]

Final Fantasy VII Rebirth recensione

Square Enix riesce nell’assurda impresa di far rivivere emozioni che si credevano perse. E lo fa in un periodo storico in cui i tripla A sono ricchi di qualsiasi cosa meno che di magia.

Dopo Final Fantasy VII Remake era naturale provare sia eccitazione che preoccupazione per il secondo capitolo di questo progetto firmato Square Enix. Nel 2020 divenne infatti chiaro a tutti che la dicitura “remake” fosse solo una messa in scena. Rebirth, in maniera anche piuttosto plateale, riconferma che ci troviamo dinanzi a un vero e proprio sequel di quell’incredibile titolo che nel 1997 fece sognare milioni di videogiocatori. Un polpettone ripieno di tutto ciò che, nel bene e soprattutto nel male, fa parte della Compilation di Final Fantasy VII. Dunque non posso che iniziare questa recensione consigliando vivamente di recuperare il titolo originale, nel caso in cui non l’aveste già fatto, prima di immergervi in questa sua nuova interpretazione.

Se volete saperne di più sulla serie di Final Fantasy in generale vi rimando a questo articolo: Tutti i Final Fantasy spiegati brevemente

Una bellissima storia vittima di un pessimo autore

La trama di Final Fantasy VII Rebirth inizia esattamente dove il precedente titolo si era concluso. Cloud e i suoi compagni hanno lasciato Midgar e si preparano per un lungo viaggio con l’obiettivo di fermare Sephiroth. Il canovaccio della storia rimane fedele al primo disco dell’originale Final Fantasy VII per gran parte dell’avventura. Sezioni iconiche come Corel, il Golden Saucer e Cosmo Canyon sono trattate con grande attenzione e rispetto. Purtroppo, proprio come nel Remake, in alcuni punti il ritmo rallenta a causa di allungamenti forse superflui. Nonostante ciò, nel complesso, la trama è coinvolgente, i personaggi sono ben sviluppati (come si vede raramente in produzioni simili) e la messa in scena di alcuni eventi è semplicemente fenomenale. Complice anche la colonna sonora, tra le migliori mai realizzate all’interno della serie e non solo, un vero capolavoro.

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Tuttavia devo segnalare che l’ultimo capitolo del gioco potrebbe far storcere il naso a molti fan di vecchia data. Se il finale di FF VII Remake poteva sembrare esagerato, qui si è addirittura andati oltre. Il problema principale, come spesso accade, è l’estro creativo di Nomura. Forse è giunto il momento che inizi a moderarsi poiché in veste di scrittore appare sempre più come una parodia di se stesso. Se i Kingdom Hearts sono titoli atroci dal punto di vista della scrittura, Final Fantasy VII Rebirth si salva in corner solo perché poggia su delle basi solide che più di tanto non possono essere alterate, per fortuna.

Fantasia fatta realtà

Final Fantasy VII Rebirth è un vero e proprio luna park: avventura, esplorazione, combattimenti e una miriade di minigiochi. Alcuni dei quali ripresi dal titolo originale, mentre altri sono stati creati appositamente per questo capitolo. Tra questi spicca l’eccezionale gioco di carte collezionabili Queen’s Blood, erede spirituale dell’iconico Triple Triad di Final Fantasy VIII.

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Il gioco è suddiviso in capitoli, e la struttura di FF VII Rebirth si presenta come una combinazione tra sezioni lineari, generalmente quelle dove la trama prosegue, e ampie zone open map. Con mia sorpresa queste aree aperte sono ben progettate, contrariamente a quanto visto in Final Fantasy XVI. Ognuna di esse, tramite anche l’utilizzo di specifici tipi di Chocobo, presenta meccaniche di navigazione uniche che rendono il tutto ben variegato e caratterizzato. Una bella citazione a Final Fantasy IX. Nonostante non si tratti di una rivoluzione, le mappe sono davvero piacevoli da esplorare e offrono la giusta quantità di attività secondarie (un plauso alle quest secondarie che fanno parecchi passi in avanti rispetto ad altri titoli di questo genere), il tutto accompagnato da un’estetica mozzafiato, ma in questo raramente Square Enix sbaglia.

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La violenza non è mai stata così divertente

Protagonista indiscusso della produzione è il combat system, che rappresenta probabilmente il miglior sistema di combattimento mai visto in un action JRPG. Mentre in Final Fantasy VII Remake le potenzialità del sistema erano percepibili, i limiti imposti dall’esperienza impedivano di vedere fino a dove si sarebbe potuti arrivare. In Rebirth, invece, non ci sono limiti, e il sistema di combattimento brilla come il sole.

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Torna l’elegante commistione tra azione e strategia, insieme all’unicità di ciascun personaggio, ben differenziato l’uno dall’altro. L’uso brillante delle materie e della barra ATB è rimasto pressoché invariato rispetto al precedente capitolo, ma ciò che aggiunge ancor più profondità sono le azioni sinergiche. Questi attacchi e tecniche realizzati insieme ad un membro del party non consumano alcuna risorsa, ma richiedono una sincronizzazione perfetta. Sebbene in alcuni momenti il caos dell’azione rischi di prendere il sopravvento sulla pulizia del combat system, sono rare le occasioni in cui non si percepisce di avere totale controllo su ciò che accade.

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Tecnicismi vari

Come detto sopra, di paesaggi mozzafiato ce ne sono a volontà. Il character design è perfetto e dal punto di vista tecnico il gioco in modalità prestazioni è quasi sempre stabile, su oltre 100 ore di gioco (la longevità e la mole di contenuti sono smisurate) mi è capitato di notare vistosi cali di frame, bug o altri problemi giusto in un paio di occasioni. Comunque nulla che mi impedisse di giocare o proseguire serenamente l’avventura. Lato grafico non siamo di fronte ad un capolavoro, sebbene il colpo d’occhio sia di notevole impatto. L’illuminazione iper realistica di Unreal Engine ogni tanto “smarmella” la scena, creando effetti di luce non proprio eccezionali.

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Il mixaggio sonoro non è preciso, come si nota sempre più spesso nelle produzioni tripla A. In molte occasioni la musica, per quanto incantevole, sovrasta le voci in maniera tale da rendere difficile sentire i dialoghi. Consiglio quindi di abbassare il volume di musica ed effetti sonori, lasciando invariato quello delle voci. Ottimi i doppiaggi in inglese e giapponese. Da segnalare che la traduzione italiana è basata sulla lingua giapponese, quindi sono presenti vistose discrepanze tra audio e sottotitoli se giocato con il doppiaggio inglese.

Sito ufficiale Square Enix.

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LA ZONA D’INTERESSE, film candidato a 5 Oscar – [Recensione]

la zona d'interesse

Recensione de “La zona d’interesse”, film candidato a 5 Oscar, tra cui miglior film e miglior film straniero, per la regia di Jonathan Glazer

Avevo alte aspettative per un film di cui avevano parlato benissimo e che ha ricevuto 5 nomination agli oscar. E posso ritenermi soddisfatto delle premesse.

“La zona d’interesse” è un film, come molti lo hanno definito, disturbante. E in effetti è la sensazione dominante per tutta la durata della pellicola, in cui lo spettatore è testimone di una vita comune, umana in un paradiso terrestre, ma che in realtà convive con una delle atrocità più gravi di tutta la storia dell’umanità.

Questa vita parallela lontana dalle crudeltà di Auschwitz viene caratterizzata da scena di estrema umanità, in cui si tenta di far empatizzare lo spettatore con le bizze dei bambini, la loro curiosità per il giardino, la notte insonni rimediate con una favola della buonanotte, ma allo stesso tempo con scene che provocano odio per questa famiglia assolutamente conforme all’ideologia della Germania nazista dell’epoca.

Questo connubio di sensazioni fa scaturire un profondo fastidio, accentuato dai mille dettagli nascosti che raccontano ciò che accade dentro le mura, senza mai mostrare nulla. Protagonista qui è il sonoro, che racconta un sottofondo inquietante, lasciando allo spettatore un’interpretazione che rende ciò che succede in scena un peso allo stomaco.

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Questa ottima idea si perde però dopo circa un’ora di film, da quando poi sembra che abbia finito ciò che vorrebbe dire, a meno di un finale davvero efficace. Purtroppo, la trama si dipana in modo disunito, senza un vero e proprio finale o spannung, ma con delle sequenze potenti per il significato, ma sostanzialmente evitabili.

Ancora non ho compreso a pieno la sottotrama in negativo, non del tutto sviluppata e dall’interpretazione incerta. Una specie di piano di sabotaggio da parte della figlia di Rudolph, ma che non trova molto spazio all’interno della narrazione

  La regia chirurgica si distacca da qualsiasi tipo di piani intimi, lasciando invece spazio agli ambienti. L’interpretazione precisa e mai macchiettistica dei personaggi dipinge una “banalità del male” molto impattante, capace di lanciare un messaggio che arriva dritto allo stomaco allo spettatore. Geniale la scelta dei silenzi, delle pause, contrapposte al disturbante rumore confuso dell’epilogo e del prologo.

In conclusione, un film capace di provocare fastidio allo spettatore per tutta la durata della pellicola, in cui è testimone della vita comune di una famiglia dipinta come umana, ma che convive con le atrocità dell’olocausto. Una storia capace di suscitare angoscia attraverso la semplicità di azioni quotidiane, svolte però da persone non preoccupate dei crimini di cui si stanno macchiando, il tutto con un sottofondo di suoni lontani che raccontano una storia a sé.

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PERFECT DAYS, il film candidato agli oscar – [Recensione]

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Recensione di “Perfect Days”, il film candidato agli oscar come miglior film straniero, dalla regia di Wenders.

Ero incuriosito dal film, soprattutto per i riconoscimenti ricevuti a Cannes, ma non ero riuscito ad andare in sala, così l’ho recuperato solo ora, anche perché è candidato agli oscar come miglior film straniero. Ecco la recensione di “Perfect days”

“Perfect Days” è un film delicato che accarezza il cuore e lo accompagna all’interno della vita di Harayama, un uomo di mezza età che vive da solo a Tokyo, dove lavora nelle pulizie dei bagni pubblici. Le sue giornate, i suoi perfect days, sono scaglionati da una routine fissa, composta da gesti quotidiani, piccoli piaceri, gioie che scaturiscono da dettagli nascosti.

Wenders è maestro nel mostrare le stesse azioni che caratterizzano le giornate del protagonista, sempre in modo diverso, dando un taglio ogni volta differente, da un punto di vista sempre nuovo, esaltando le piccole novità che accadono a Harayama, conferendone importanza e mostrando come originino stimoli nuovi.

Il film si limita a mostrare la vita semplice, umile, di una persona dal difficile turbamento, che nonostante la sua vita, appare più felice di tutti gli altri personaggi che incontra. La sua routine schematica nasconde la ricetta per una vita Epicurea, che agli occhi della nostra società frenetica pare di poco valore, forse perché è così difficile pensare che Sisifo sia contento.

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L’interpretazione di Yakusho riesce sempre in ogni scena a mostrare il lato umano di un uomo completamente isolato dal mondo, estraneo a ogni tipo di progresso, ancora attaccato alle sue usanze, alle sue misure, ai suoi bisogni. La recitazione fatta di sguardi, di sorrisi, di non detti lascia suggerire una completa condizione di “essersi accontentato”.

Nonostante le sue passioni umili come la lettura, la fotografia, la botanica, però il finale ci pone una domanda che all’apparenza abbia già una risposta, in quanto il film non pare non abbia bisogno di interpretazioni: ma Harayama, è felice?

La domanda con cui sono uscito dalla sala non ha bisogno di una risposta, perché non è importante, è importante chiedersi se noi saremmo felici se avessimo la sua vita. Il film non mostra alcun tipo di tentativo di fuggire o cambiare la propria vita, mentre ci mostra Takashi in preda all’insoddisfazione. Forse allora non c’è una critica alla società che ha reso Harayama così, ma piuttosto un dubbio se siamo noi che stiamo regredendo e ci sembra impossibile che la felicità sia quella, oppure Harayama si è quasi rassegnato, ma direi accontentato di una vita semplice.

Perfect Days
Perfect Days

In conclusione, “Perfect Days” è un film delicato che accarezza il cuore e lo accompagna all’interno della vita di Harayama, interpretato squisitamente da Yakusho. Il protagonista mette in crisi le certezze della nostra società, riflettendo su come la vita sia fatta di semplicità e piccole cose, risultando il più felice tra tutti i personaggi che incontra, il tutto guidato dalla regia magnifica di Wenders.

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Tents and Trees – Campeggio e strategia [Recensione]

Tents and Trees Campeggio e strategia [Recensione]

Ecco la mia recensione di “Tents and Trees”, il rompicapo ambientato nella natura sviluppato dalla Frozax Games!

Grazie alla Frozax Games per avermi concesso, tramite Keymailer, la chiave che mi ha permesso di provare su Nintendo Switch il loro titolo Tents and Trees e di scriverne questa recensione!

Steam descrive il gioco come “un rompicapo ambientato in mezzo alla natura”, invitando a pensare “in modo strategico a come posizionare le tende nell’universo pacifico di Tents and Trees”.

Lo scopo del gioco è, infatti, sistemare le tende all’interno di una griglia, seguendo le indicazioni dei numeri per capire quante tende possano essere posizionare in ciascuna riga e colonna.

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Attenzione, però: le tende non possono toccarsi tra di loro. Ogni livello ha un’unica soluzione, il che rende la sfida doppiamente avvincente e vi spingerà a pianificare con cura ogni vostra mossa.

Superando un livello dopo l’altro, le griglie diventeranno sempre più grandi e i puzzle sempre più impegnativi, costringendovi a sviluppare strategie sempre nuove. I livelli sono migliaia, e ogni giorno potrete cimentarvi in un nuovo livello giornaliero esclusivo.

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Se vi trovate in una situazione di stallo, non preoccupatevi: il gioco offre suggerimenti gratuiti illimitati, oltre alla possibilità di mettere in pausa un livello e tornarci più tardi, senza fretta.

Anche a livello di personalizzazione, il gioco non si fa trovare impreparato. Se la modalità chiara e luminosa del gioco non vi attira, potrete scegliere tra la modalità scura e altri temi da sbloccare nel corso del gioco. Tents and Trees offre anche numerose tracce musicali diverse, volte a rendere l’esperienza ancora più rilassante.

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Uno dei punti di forza di Tents and Trees è sicuramente la possibilità di giocarlo sia in solitaria che in compagnia, in co-op locale fino a 4 persone.

Tents and Trees è già disponibile per Nintendo Switch e arriverà su Steam il 24 aprile 2024! Se volete provare la demo del gioco e aggiungerlo alla vostra lista dei desideri, vi lascio il link alla pagina di Steam!

[ARTICOLO IN AGGIORNAMENTO]

DUNE PARTE 2, il colossal di fantascienza del 2024 – [Recensione]

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Recensione di “Dune parte 2”, il colossal di fantascienza del 2024 di Villeneuve, con protagonista Chalamet, tratto dai romanzi di Herbert

Le aspettative per questo film erano davvero alte, per una serie di motivi: il regista, il romanzo blasonato, gli accostamenti con la monumentalità del Signore degli Anelli.
Dopo la visione in sala posso ritenermi molto soddisfatto del lavoro di Villeneuve, che è riuscito a portare al cinema un film maestoso dall’epicità incredibile.

Dopo un primo capitolo incentrato soprattutto sul worldbuilding complesso dell’universo di Dune, in questo ci si concentra più su una narrazione distesa, sempre dando molta importanza al lato tecnico.
Seppur paia non succeda quasi nulla in 2h46 di film, in realtà ci si concentra più sulla psicologia dei personaggi, sviluppandosi meglio le relazioni e i caratteri.

La narrazione amplia la mitologia dei Fremen e dà spazio anche alla casata Arkonnen, di cui conosciamo meglio gli intrighi.
La comprensione maggiore dei rapporti e dei meccanismi che regolano gli equilibri dell’universo conduce lo spettatore all’incertezza continua dei comportamenti dei personaggi, i cui fini sono sempre altri.

L’emblema di ciò è Paul, già nella prima parte dipinto come un personaggio positivo ma ambiguo, in questa second aparte assume ancora più sfumature oscure, finendo quasi per diventare un tiranno che persegue la sua sete di potere sfruttando la fede di un popolo a cui è rimasta solo la speranza.

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Quella del Muad’Dib è una storiella raccontata ai Fremen, in realtà è una figura che allevano, non che giunge. E Paul, accecato dalla sete di vendetta per il padre, traviato dall’influenza della madre e incitato dai Fremen, coniuga sapientemente le volontà del popolo del deserto mosso dall’emotività della fede e i suoi scopi personali per perseguire ideali come l’onore e il potere.
L’impianto tecnico portato in sala  è la trama tessuta dalla pellicola conferiscono al film una epicità singolare. Lo spettatore rimane incollato ed estasiato per tutto il film e il minutaggio non pesa minimamente.

Il finale a tratti anticlimatico che si risolve in pochi minuti dimostra come l’intento del film non sia di replicare una battaglia eroica e avvincente di cui abbiamo solo alcuni assaggi, una battaglia dei campi di Pelennor, ma sia quello di raccontare la storia di un popolo che compie un’impresa epica grazie alle narrazioni religiose che si autoalimentano.

dune part two review
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In conclusione, un film maestoso che mette in scena l’ascesa di Paul alla guida del popolo Fremen oscurando il suo personaggio tanto da non capire più se sai positivo o negativo. L’impianto tecnico stupefacente immerge lo spettatore nel deserto di Dune ampliandone la mitologia e sviscerando gli intrighi politici con colpi di scena inaspettati, dando maggior attenzione alla psicologia dei personaggi. Supera il precedente facendo ben sperare in una parte tre ancora migliore.

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God of Light: Remastered – La fisica della luce [Recensione]

God of Light Remastered La fisica della luce [Recensione]

Ecco la mia recensione della versione “Remastered” di “God of Light”, il rompicapo indie sviluppato dalla Plug In Digital!

Grazie alla Plug In Digital per avermi concesso, tramite Keymailer, la chiave che mi ha permesso di provare su Nintendo Switch la versione “Remastered” di God of Light e di scriverne questa recensione!

Come recita la sua descrizione di Steam, “‘God of Light: Remastered’ è una versione definitiva dell’originale gioco pluripremiato”. Questa edizione “offre una grafica HD completamente nuova, comandi personalizzati basati sulle leggi della fisica leggera e una colonna sonora rimasterizzata di UNKLE.”

La trama del gioco è interessante quanto le sue meccaniche: il luminoso protagonista del gioco, Shiny, sta cercando di salvare l’universo dall’oscurità che minaccia di avvolgerlo. Essendo letteralmente un essere di luce, Shiny è la creatura perfetta per questa missione, che, se portata a termine con successo, potrebbe qualificarla come il titolare “god of light”.

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L’obiettivo è “esplorare i livelli, cercare oggetti del gioco che riflettono, dividono, combinano, colorano, piegano e teletrasportano i raggi di energia luminosa per attivare le fonti di vita e riportare la luce nell’universo.”

Attraverso 6 mondi di gioco e 150 livelli, Shiny si imbatterà in rompicapo coinvolgenti e in creature brillanti che potranno aiutarlo a risolverle. Sfruttando prismi, specchi, filtri e buchi neri per controllare i raggi di luce, riuscirete a riaccendere la luce che sta scomparendo dall’universo?

[ARTICOLO IN AGGIORNAMENTO]

La mia Top 5 film di Wes Anderson

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Una classifica dei migliori 5 film di Wes Anderson, da vedere o recuperare aggiornata al 2024!

Wes Anderson, all’anagrafe Wesley Wales Anderson, è ormai un regista mondialmente affermato. Complice il suo stile visivo vivace e distintivo e i suoi personaggi sempre eccentrici. Amato dalle bloggherine e dalle aestetich influencers, è ormai noto ai più per il suo stile cinematografico caratterizzato dalla prospettiva centrale, dal profondo uso della geometria dello zoom veloce e in qualche caso all’uso del rallentatore. Nei dialoghi fra i vari personaggi è ricorrente l’uso della panoramica ” a schiaffo”, poco utilizzata nel cinema perché complessa e ritenuta innaturale, ma che grazie all’uso della telecamera posizionata su un carrello mobile, permette di avvicinarsi e allontanarsi dal soggetto rimanendo con una prospettiva centrata.

La fotografia di Anderson è estremamente curata, ne è diventata infatti una delle caratteristiche stiliste del regista. Colori pastello, monocromo vividi e raramente il bianco e nero sono, insieme alla prospettiva geometrica, la firma del regista texano.

La firma stilistica del regista è facilmente riconoscibile sin da pochi fotogrammi, come dalle primissime scene. Prendiamo ad esempio “Grand Hotel Budapest” un film intramontabile e non possibile da ricreare in nessuna versione se non quella originale. Icolori, le inquadrature e l’humor spiazzante rendono il film una chicca cinematografica.

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Ho visto tutti i film di Wes Anderson, e sono quindi pronta a stilare la mia personale classifica dei 5 migliori film, scaletta prettamente personale, che tiene conto di tutto ciò che caratterizza il film, cast, colonna sonora, fotografia e quant’altro. Non arrabbiatevi con me se non siete d’accordo, potete fare anche voi la vostra scaletta, ma ricordiamo, che questa è quella definitiva.

5) L’Isola dei Cani (2018)

L'isola dei cani - Sentieri Del Cinema
L’Isola dei cani

Film d’animazione interamente girato in stop motion. Siamo nel Giappone del 2038, quando un influenza canina la nazione e tutti i cani vengono spediti in quarantena su un’isola di rifiuti . Fra di loro c’è anche Spots, il cane del figlio adottivo del Sindaco, uomo dietro la legge sulla quarantena dei cani. Il ragazzo decide di ritrovare a tutti i costi il suo cane, e per questo scappa dalla città per ritrovarsi sull’isola dei cani, dove incontrerà un gruppo di randagi che lo aiuteranno. Dopo varie peripezie tutto torna alla normalità e la pandemia viene sconfitta dalla scienza. I cani sono riammessi sulla terraferma, così da ricongiungersi con i padroni. Nonostante sia un film in stop motion, Wes Anderson utilizza tutta la sua cifra stilistica nel film, rendendolo unico.

4) Fantastic Mr. Fox ( 2009)

Fantastic Mr. Fox, recensione del primo lavoro in stop-motion di Wes  Anderson | CiakClub.it
Fantastic Mr.Fox

Ultimo film che ho visto di Wes Anderson. Fantastic Mr. Fox è il primo film di animazione di Wes Anderson, ma nonostante questo è carico di livelli di lettura. Come i rapporti amorosi cambiano con il tempo, quanto una persona può effettivamente cambiare per amore, ma non per ultimo, la critica sociale alle caste. Il film è tratto dal libro di Roald Dahl , “Furbo, il Signor Volpe”, del 1970.

3) Grand Budapest Hotel (2014)

Grand Budapest Hotel (2014) | MUBI
The Grand Budapest Hotel

Film d’apertura della 64esima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, acclamato dalla giuria e vincitore del Gran Premio della giuria. Vincitore anche di quattro Oscar come Migliore scenografia Adam Stockhausen e Anna Pinnock, migliore trucco a Frances Hannon e Mark Coulier, miglior colonna sonora a Alexandre Desplat e dulcis in fundo : migliori costumi alla già plurispremiata Oscar Milena Canonero. Grand Budapest Hotel narra le avventure di Gustave H., concierge di un elegantissimo hotel europeo negli anni ’30 del 900, e di Zero Moustafa. Insieme si trovano coinvolti in una serie di stravaganti avventure, intrighi familiari e anche un omicidio. Il film mescola humor, stile visivo firma di Anderson, e personaggi eccentrici, creando un film davvero unico nel suo genere. Anche per questo film Wes Anderson ha tratto ispirazione da un libro degli anni 40 dello storico Stefan Zweig.

2) Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004)

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Le Avventure acquatiche di Steve Zissou

La trama segue le avventure di Steve Zissou, un famoso oceanografo e documentarista che cerca vendetta contro il misterioso squalo giaguaro che ha ucciso il suo migliore amico e collaboratore. Con l’aiuto di un equipaggio colorato e variegato, Zissou intraprende un viaggio epico attraverso l’oceano, affrontando ostacoli e situazioni bizzarre lungo il cammino. Il film mescola elementi di commedia, dramma e avventura caratterizzato sempre dallo stile visivo caratteristico del regista. Commovente, attraversa vari livelli emotivi, dal comico al profondo. Degna di nota è sicuramente la colonna sonora, che spesso introduce brani di David Bowie, mentre per gli altri film Anderson ha utilizzato spesso musica degli anni 40/50 del 1900. Il personaggio di Steve Zissou è un palese richiamo al documentarista e oceanografico Jacques-Yves Cousteau, a cui il film è omaggio.

Il particolare più evidente? Le riprese a pelo dell’acqua e il berretto rosso dei personaggi. Fra tutti i film del regista texano, questo è forse uno dei meno conosciuti, per questo, è assolutamente necessario guardarlo.

1) I Tenenbaum (2001)

The Royal Tenenbaums - Metacritic

La storia ruota attorno alla famiglia Tenenbaum, composta da genitori strani e tre figli straordinariamente talentuosi. Il patriarca Royal Tenenbaum, interpretato da Gene Hackman, viene cacciato di casa dalla moglie Etheline dopo vari e ripetuti tradimenti. Decide di riconnettersi con la sua famiglia fingendo di avere un cancro in fase terminale. La storia analizza i conflitti, le tensioni e le dinamiche familiari dei Tenenbaum mentre cercano di affrontare le loro relazioni turbolente e le proprie aspettative insoddisfatte. Owen Wilson ha co-scenaggiato il film; Wilson e Anderson infatti, sono amici di college, in quanto sin sono conosciuti nell’adolescenza nel college del Texas. The Royal Tenenbaum è il primo successo di Wes Anderson, diventato in poco tempo un cult e uno dei film più apprezzati del regista.

Persona 3 Reload: la Recensione

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Persona 3 Reload dimostra come mai fosse necessario un Remake di questo capitolo della amatissima saga videoludica. Ma come ha fatto?


Ci sono alcuni videogiochi che vengono gettati nell’oblio, che vengono dimenticati perché non hanno niente che valga la pena di essere ricordato, perché sono stati surclassati da altri titoli, perché erano troppo acerbi o semplicemente perché non erano dei bei giochi.

Ci sono altri giochi, invece, che verranno ricordati per sempre, ricordati per la loro storia, per il loro gameplay o semplicemente perché sono stati giocati in momenti importanti nella vita di molte persone.

Infine, ci sono giochi che vengono ricordati solo da alcuni fan di vecchia data, o da alcuni abbastanza curiosi di provare qualcosa di diverso dal solito, o ancora da alcuni abbastanza coraggiosi da mettere mano ad un titolo ormai considerato “vecchio”. Ecco, prendiamo il caso di quest’ultimo titolo citato, e teniamo conto del fatto che ne esistano due riedizioni completamente diverse, con meccaniche e strutture differenti, uscite per console distinte e senza che nessuna sia considerabile quella definitiva: ecco a voi il caso Persona 3.

Questo titolo, infatti, ha già avuto due simil-remake: oltre alla versione base sono state pubblicate l’edizione “Portable”, per PSP, e l’edizione “FES”, per PlayStation 2. 

Se la prima versione impreziosisce l’originale aggiungendo, per esempio, la possibilità di dare comandi diretti al party e introducendo la meccanica del “One More”, allo stesso tempo contiene limiti di gameplay dovuti alla tecnologia della PSP. Per citarne una, non era possibile esplorare in maniera libera, ma solamente attraverso dei menu in stile punta e clicca.

D’altra parte, sotto questo punto di vista Persona 3 FES rimane più fedele all’originale, permettendo ai giocatori di usufruire di un’esplorazione più libera, ma senza tutte le migliorie della versione per PSP.

Persona 3 Reload nasce per portare una soluzione che possa unire tutti i migliori aspetti di queste due versioni, creando quindi una tanto attesa versione definitiva dell’opera, con tanto di migliorie estetiche che superano persino quelle dell’amatissimo quinto capitolo. Con questa recensione, si vorrebbe evidenziare il modo in cui P Studio sia riuscito a creare il Persona 3 definitivo, attraverso un’opera di Remake degna, finalmente, di questo nome. In questo articolo non saranno presenti spoiler riguardanti la trama del gioco, ma approfondirò alcune delle meccaniche esclusive di questo Remake. Se volete scoprirle da voi, vi consiglio di saltare quelle parti, che verranno comunque segnalate con il giusto anticipo.


Persona 3 Reload


Partiamo subito con una delle modifiche più palesi: l’estetica del gioco è stata completamente rinnovata, donando all’opera un look decisamente più fresco e piacevole alla vista. Gli asset di Persona 3 Reload sono stati tutti riadattati in alta definizione per renderlo, sotto questo punto di vista, il più qualitativamente apprezzabile rispetto agli altri capitoli della serie. Ciò non basta, però, a renderla una grafica degna di questa generazione videoludica: i dettagli delle texture rimangono comunque ai livelli di ciò che una PlayStation 4 poteva offrire senza alcun tipo di problema, e lo stesso si applica in generale ai modelli e a tutte le animazioni che non riguardano i menu o il combattimento, come ad esempio la camminata del protagonista o la famosa “folla” al Club Escapade, perfettamente immobile, se non per 2 o 3 NPCs. Non serve esattamente una PS5 Pro per far girare questo capitolo, per intenderci.

Questa scelta,  a dirla tutta, arriva con dei benefici per alcuni giocatori: la semplicità grafica potrebbe permettere a console datate, come la Nintendo Switch, di reggere il gioco senza troppe sbavature.


Persona 3 Reload


Ciò che più ho apprezzato, parlando sempre del reparto grafico, è proprio il rifacimento di tutti i menu, che prendono in prestito il colpo d’occhio e le animazioni a dir poco piacevoli del quinto capitolo della serie.

Il risultato è a dir poco sbalorditivo: quello che normalmente viene visto come un processo estremamente noioso e meccanico, ovvero cercare tra i menu un’opzione specifica, diventa improvvisamente uno spettacolo per gli occhi, il tutto senza sacrificare la fluidità e la semplicità di navigazione.

Lo stesso esatto principio si applica anche per i menu di combattimento: La nuova estetica è stata riadattata in maniera sublime prendendo in prestito la fluidità e la chiarezza di Persona 5, ma senza renderla una copia di quest’ultimo, mantenendo quindi l’impronta stilistica del terzo capitolo. 


Persona 3 Reload


Il combattimento è uno degli elementi fondanti dei JRPG e i capitoli di Persona, in quanto tali, dimostrano gran parte delle loro potenzialità proprio in questo campo. Più avanti approfondiremo le meccaniche più interessanti riguardanti appunto il Combat, ma adesso preferirei concentrarmi su uno dei maggiori problemi degli RPG a turni, ovvero la lentezza.

Non è una novità infatti che a giochi del genere si associ il fatto di dover aspettare una grossa quantità di tempo tra una mossa e l’altra, soprattutto se queste sono precedute da una infinita animazione, spettacolare sì la prima volta, ma interminabile e noiosa per le seguenti.

Parlando del quinto capitolo, una delle migliorie che più ho apprezzato è stata proprio la creazione di una dinamicità e rapidità nel poter scegliere le mosse e nell’effettuarle: una volta premuto il tasto triangolo (dicendo quindi al gioco che si intendeva attaccare con una Persona), questa veniva evocata nel momento stesso della pressione, facendo partire l’animazione ancora prima che si decidesse la mossa specifica da eseguire. Inoltre, durante le mosse di gruppo, precedute da una vera e propria piccola cutscene, si aveva la possibilità di saltare per intero l’animazione, se non si era interessati a vederla. 

Nonostante questi due elementi di Quality of Life in Persona 3 Reload non siano presenti e vadano ad allungare il brodo durante le battaglie, queste rimangono comunque dinamiche, veloci e intrattenenti.


Persona 3 Reload


Uno degli aspetti che più mi interessava approfondire di questo remake erano tutte le varie meccaniche legate al combattimento: oltre a quelle presenti nell’originale, quali altre avremmo trovato? La risposta è stata esattamente quello che speravo, ovvero sono presenti tutte le meccaniche dei remake e dei capitoli successivi che contraddistinguono la saga.

Parlando delle meccaniche presenti in tutti i capitoli della saga, dal terzo in poi, troviamo:

Il One More, ovvero poter effettuare un secondo attacco, una volta che si attacca un nemico colpendo la sua debolezza;
La Staffetta, il poter cambiare membro del party con il quale attaccare dopo che si effettua un One More;
La Mano Arcana, ovvero la possibilità di pescare delle carte a fine combattimento che ti permettono di avere dei bonus ed ovviamente la possibilità di acquisire le Ombre per comandarle e di fonderle per crearne di più potenti;
Il Supporto dà la possibilità, premendo semplicemente un tasto, di selezionare immediatamente un nemico e di attaccarlo con una mossa debole per quest’ultimo, a patto di aver già precedentemente scoperto di quale debolezza si trattasse.

Oltre queste meccaniche, ne troviamo alcune esclusive di Persona 3 Reload, che contribuiscono a rendere i combattimenti più dinamici che mai. Se volete evitare Spoiler riguardanti le meccaniche nuove di questo Remake, questo è il momento adatto per saltare direttamente al prossimo paragrafo.

Una delle aggiunte più interessanti è sicuramente quella della Teurgia: ogni volta che i nostri compagni eseguono un’azione che riflette il loro ruolo, verrà piano piano caricata una barra presente a destra, vicino agli HP ed SP dei membri del party. Una volta al massimo, potremo effettuare una mossa speciale, anch’essa specifica per ogni compagno.

Un’altra meccanica esclusiva di questa nuova edizione è rappresentata da dei grandi Orologi: durante l’esplorazione nel Tartaro, ci si potrà imbattere in delle porte circolari che rappresentano i quadranti degli orologi. Entrando, potremo selezionare due membri del party, che siano quelli attivi o inattivi, e gli daremo la possibilità di raggiungere immediatamente il livello del nostro protagonista al prossimo combattimento. In questo modo ci eviteremo ore ed ore di grinding per far raggiungere a tutti i nostri compagni un livello alto, rendendola uno degli elementi di Quality of Life più comodi e piacevoli.

Per finire, la Persona 3 Reload ci delizia con un’ultima aggiunta, anche questa in parte di Quality of Life: si tratta delle Porte delle Monadi. Come le precedenti, queste si potranno trovare sparse in giro per il Tartaro. Entrando questa volta, però, ci ritroveremo a scontrarci con un mid-boss. Se sconfitto, non solo ci ricompenserà con una grande quantità di esperienza e di oggetti preziosi, ma aumenterà la nostra possibilità di ottenere Arcani Maggiori durante la Mano Arcana, dandoci quindi bonus utilissimi per il combattimento e l’esplorazione.


Persona 3 Reload


L’altro elemento fondamentale per Persona è sicuramente l’aspetto Slice of Life. Se non stiamo combattendo contro i mostri nel Tartaro, infatti, è molto probabile che stiamo ascoltando una lezione a scuola, stiamo uscendo con i nostri amici, siamo in biblioteca per diventare più intelligenti o stiamo semplicemente guardando qualcosa alla tv. 

Come in tutti i principali capitoli, alterniamo i momenti in cui potenziamo le nostre Skill Sociali, che in questo caso sono solamente tre, ovvero Sapere, Fascino e Coraggio, a momenti in cui approfondiamo i nostri rapporti sociali, ognuno dei quali rappresentato da una delle carte degli Arcani Maggiori, per un totale di 22 relazioni. 

In Persona 3 Reload, però, potremo inoltre passare le giornate insieme ad uno dei nostri compagni di squadra, che non sono rappresentati da nessuna carta degli Arcani, in modo da ottenere oggetti, statistiche sociali e, in alcuni casi, potenziamenti per quello specifico compagno nel combattimento, come abilità, mosse o addirittura nuove Teurgie.

Non mancano ovviamente le varie possibilità di Romance Route con i vari personaggi femminili o la possibilità di ottenere Personae molto potenti una volta portato al rango massimo uno dei Legami, o ancora di Invertirli in caso le risposte che diamo non piacciano a questi ultimi.


PErsona 3 Reload


Se gli aspetti fondamentali della saga di Persona, dal punto di vista delle meccaniche, sono due ovvero Combat e Slice of Life, dal punto di vista estetico possiamo trovarne altrettanti, e mi riferisco ai già affrontati Menu di Gioco e alla Musica.

Proprio dalla versione originale di questo capitolo, infatti, le Soundtracks di questo gioco diventano immediatamente riconoscibili e impresse per sempre nella nostra mente.

Persona 3 Reload sotto questo punto di vista non si differenzia in alcun modo rispetto all’originale o agli altri capitoli della saga: le già presenti meravigliose soundtracks della versione base sono arricchite da remake di queste ultime, composte esclusivamente per questo capitolo, donando una chiave contemporanea alle OSTs che abbiamo imparato ad amare giocando al titolo del 2006.


PErsona 3 Reload



Per concludere, possiamo definire Persona 3 Reload un tentativo ben riuscito di Remake, in quanto ha unito con successo due versioni completamente diverse tra di loro, entrambe con i propri pro e contro, risultando in una edizione definitiva dell’opera. Non mancano lacune dal punto di vista grafico, che vengono però annebbiate dai meravigliosi menu di gioco, anche questi completamente rinnovati.

Quello che possiamo ben sperare è che questo Remake possa essere un preludio per quello che sarà Persona 6, e ci auguriamo che P Studio prenda questa opera come base su cui poter aggiungere e migliorare i vari aspetti dell’attesissimo sequel di questa saga.

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PAST LIVES, il film candidato come miglior film agli Oscar – [Recensione]

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Recensione di “Past Lives”, il film candidato come miglior film e miglior sceneggiatura originale agli Oscar, dalla regista Song

Prima di andare in sala ero molto curioso di scoprire questo film, dato che si diceva fosse uno dei papabili vincitori per l’Oscar al miglior film straniero. Dopo la visione sono abbastanza convinto di questa opininone, anche se aqncora spero tanto per Io Capitano!

Past Lives è infatti un film delizioso, dai toni cupi e allo stesso tempo dolci. La regista Song ha messo in scena una storia molto personale, forse non autobiografica ma che rispecchia sicuramente dei tratti in cui molti possono ritrovarsi. La narrazione temporale presenta dei salti nelle vite di due personaggi dalle storie complicate, le cui strade, dopo essersi divise, si rincontrano.

La forza principale i questi personaggi non è certo la caratterizzazione, che ho trovato abbastanza esplicitata e non mostrata, ma bensì la loro psicologia. Non sappiamo quasi nulla, o meglio non ci sono scene in cui vediamo all’opera i due protagonisti Nora e Hae Sung nelle loro vite fuori dall’interazione tra loro, e quindi, al di là del marito di Nora nel finale, non capiamo bene che cosa affrontano nel mondo i due personaggi quando si devono lasciare.

Possiamo dedurre che siano vite nella normali, ma evidentemente non bastano, perché sentono che tra di loro c’è un qualcosa di più grande. L’intento del film non è certo questo però, è invece quello di mostrare una storia intima di due persone che si fanno domande su come sarebbe potuta andare la loro vita se l’evento tragico dell’emigrazione non fosse accaduto.

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Recensione Povere Creature!, la fiaba moderna di Lanthimos

Nonostante ci venga mostrato solo uno spaccato per volta delle loro vite, in ellissi temporali di 12 anni l’una, risulta comunque a primo impatto assurdo che due persone che vivono a migliaia di km di distanza e non si frequentino da anni possano provare una così forte attrazione da volersi incontrare a tutti i costi. Ma alla fine del film, anche grazie a un climax da magistrale, anche lo spettatore inizia a chiedersi, se nella stessa situazione, come si sarebbe comportato.

Ed è qui che il film porta in scena in modo vincente la il suo punto di forza maggiore: la continua incertezza. I personaggi sono in continuo conflitto personale per un amore non sbocciato che non riescono a superare poiché è difficile scendere a patti col passato. Fino all’ultimo vediamo l’evoluzione di questo rapporto funestato da scelte non completamente volontarie, ma che in modo abbozzato più volte viene ricucito.

Durante la visione mi sono accorto di essere passato più volte ad alternanza a voler o non volere un lieto fine per la relazione, perché via via che progredivano gli eventi, si accavallavano motivazioni più o meno valide, che alla fine del film. ho raccolto e mi hanno dato fastidio, mi hanno messo in crisi, portandomi a riflettere sull’autenticità delle nostre vite, e di come siano a volte decisioni che prendiamo a cambiare radicalmente tutto.

Past Lives”, un grande film sentimentale che sa emozionare - Il Sole 24 ORE
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In conclusione, una storia d’amore che mette in crisi raccontando le funestate vicende di due personaggi distanti fisicamente ma legati da un passato con cui non riescono a fare pace, in grado di far riflettere sulle proprie scelte di vita e sull’autenticità delle proprie relazioni. Una storia intima dal ritmo lento che, attraverso la metafora delle “Past Lives”, porta in scena personaggi dalla psicologia complessa che tengono in tensione lo spettatore fino alla fine.

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