Horror, Cultura e Società [Approfondimento]

Horror Cultura e Società

Il videogioco horror ci parla della nostra società e di quelle altrui in un modo inaspettato e con una semplicità disarmante. Scopriamo come.

Per comprendere come la società, la cultura e il videogioco horror siano correlati, è necessario prima fare un importante parallelismo sonoro.

Nella musica, e in particolare nel Metal, esiste questa tendenza alla suddivisione più specifica possibile in generi e sottogeneri basata anche solamente sulle tematiche che l’artista va ad affrontare.

Per quel che riguarda la politica e la ribellione troviamo il Thrash Metal, c’è il Death Metal che ci racconta di violenza, morte e dolore, oppure il Black Metal che narra di temi occulti e depressione;

Molto spesso la trama musicale è identica ma da una parte troviamo il Depressive Black Metal e dall’altra il Blackened Black Metal, e così via.

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Suoneranno Brutal Death Metal o Technical Death Metal?

C’è quindi una differenziazione semiotica di un contenuto che basilarmente è molto simile, o almeno all’apparenza.

Oggi vorrei applicare questo discorso ai videogiochi, in particolare a quelli che ci spaventano e ci fanno pentire di aver speso i nostri sudati risparmi per ore ed ore di paura gratuita.

Come ogni altra opera artistica, anche i videogiochi, oltre che dal genio dell’autore, sono costituiti da alcuni elementi “ambientali” che inevitabilmente li condizionano. Quelli Horror ancor di più rispecchiano paure molto spesso non solo personali, legate alla cultura e alla società di appartenenza; e così come l’amore, la paura è uno di quei sentimenti che più facilmente si manifesta inconsciamente in azioni, parole e, in questo caso, creazioni.

Un videogioco horror ci parla, in parole povere, molto di più rispetto ad altri generi, perché gli autori ci trasferiscono alcune problematiche inconsce derivanti dalla società in cui vivono e dalla cultura a cui appartengono.

Questo processo è ciò che rende l’opera un oggetto culturale a tutti gli effetti, ma partiamo dall’inizio.

Il primo videogioco considerabile da chi vi scrive un vero e proprio Horror tout court è Alone in The Dark, del 1992, il quale remake è stato da poco (purtroppo) rimandato a gennaio. Ovviamente anche in precedenza ci sono stati giochi a tema Horror, ma Alone in The Dark è stato il primo ad avere una parvenza di gameplay ad hoc, con meccanismi appositamente creati per creare tensione anche pratico, e non solo nel visivo.

Se prima ci ritrovavamo punta e clicca o Dungeon Crawler con degli orribili mostri, pur mantenendo la struttura di un’avventura grafica, Alone In The Dark utilizzava metodi quali il lento cambiamento di telecamera, gli enigmi ambientali ed i dialoghi per spaventare o perlomeno inquietare il giocatore per tutta la durata della partita. Un effetto chiaramente anche involontario, dato che la lentezza ansiogena del gameplay era dovuta anche dai limiti tecnici delle console dell’epoca.

È arduo anche effettuare un’analisi semiotica del gioco, anche se nella gestione delle tematiche troviamo molti topos della narrativa anche cinematografica del tempo: riassumendo molto, Il Detective Carnby esplora villa Derceto cercando di risolvere un delitto e durante la sua esperienza scoprirà molto di più rispetto a ciò che inizialmente si aspettava, rischiando la vita.

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Edward Carnby negli anni, palesemente un Senzavolto del Trono di Spade.

Tutto l’Horror anni ’80 e primi ’90 è pregno del concetto dello “scoprire troppo”, figlio di una società e una cultura, quella americana, dell’eccesso, dove soprattutto i giovani annoiati dal loro ambiente abitudinario e tranquillo, escono dalla loro comfort zone cercando il brivido dell’ignoto esplorando zone remote dello Stato.

Pensate ad un qualsiasi Slasher del periodo e indubbiamente noterete questo schema che si ripete. Alone in The Dark è anch’esso figlio di questo stile, ma le cose stavano per cambiare, soprattutto con l’avvento delle opere del Sol Levante nel genere.

Prima però, è necessario parlare di un importante concetto: quello di relativismo culturale.

Evitando lunghi spiegoni, il relativismo culturale è quel fenomeno per il quale una stessa usanza e/o pratica viene percepita in modo differente in base alla cultura in cui viene inserita.

Un esempio possono essere i bovini: mangiati con gusto in Occidente e venerati come dei in India.

Queste differenze sono determinate da tradizioni e usanze così radicate nella società e negli uomini tanto da rendere difficile stabilirne la reale origine.

Ma ora, torniamo a noi.

1996. Esce Resident Evil. Tutti si spaventano a causa di questa specie di B-Movie USA creato però dai Giapponesi. Nasce una leggenda.

1999. Esce Silent Hill. Tutti si spaventano a causa di questo thriller angosciante su un padre USA che perde la figlia ma creato dai Giapponesi. Nasce una leggenda.

resident evil vs silent hill paura v
Con l’arrivo del remake di Silent Hill 2 e le già svariate ripubblicazioni di Resident Evil, si sente il riecheggiare di quella specie di “faida” che nei primi 2000 aveva colpito i fan di queste due serie.

Queste due saghe horror, indubbiamente le più importanti di quelle prodotte in Giappone, sono anche molto utili per descrivere come in Oriente il concetto di paura sia completamente differente nella società e nella cultura rispetto all’Occidente.

Da quando il genere è diventato maturo infatti, dall’America abbiamo avuto come esempi storie in cui il protagonista svolge il suo ruolo principalmente per se stesso: In Alone in The Dark, Carnby accetta il caso perché ingaggiato da un’antiquaria, perché è il suo lavoro; perfino in Doom, che non è considerabile un vero e proprio videogioco dell’orrore, noi uccidiamo i demoni perché possiamo farlo, e vogliamo farlo.

Le due saghe giapponesi invece capovolgono la prospettiva: Non è più il giocatore e il personaggio giocante al centro dell’attenzione, non agiamo per nostro diletto o soddisfazione. Le città, le altre persone, le altre vite, diventano la motivazione che ci spinge a giocare.

Salvare Raccoon City, scoprire cos’è successo sulle montagne Arklay; salvare Cheryl, scoprire perché Silent Hill è avvolta nella nebbia e piena di mostri.

Nella prospettiva occidentale, si fa in qualche modo riferimento ad un’etica profondamente individualista e a tratti capitalista: non a caso di grande ispirazione per tutto il movimento Horror USA (compreso il suddetto Alone in The Dark) fu H.P. Lovecraft, repubblicano e decisamente critico verso la seppur nascente ideologia bolscevica.

Ma allora per quale motivo i giochi dell’orrore orientali hanno avuto così tanto successo anche da noi, nonostante di base avessero una morale e un significato teoricamente così distanti?

In questo caso c’è anche un pizzico di furbizia.

Edward Said nel 1978 pubblicò Orientalismo, un libro in cui descriveva un processo che spesso viene effettuato da noi occidentali: analizzare i processi culturali completamente a noi avulsi, come quelli del mondo orientale, e codificarli secondo il nostro codice etico, la nostra cultura, morale ecc..

Resident Evil in qualche modo asseconda questo processo, utilizzando una messa in scena che più occidentale non si può, facendo continui riferimenti agli zombie movie dei decenni precedenti e stereotipando il più possibile i suoi personaggi. Eppure il concetto di base è sempre molto filo-orientale: La STARS, una squadra creata appositamente dalla polizia per risolvere problemi “complessi”, in seguito ad una missione di soccorso entra in una villa scoprendo gli inganni di una multinazionale che rischia di distruggere il mondo con un’arma batteriologica.

L’Umbrella stessa è eco di un sistema capitalistico che, seppur ormai completamente ibridato alla società giapponese, faceva storcere il naso a chi non si sentiva parte dell’ormai sistema globalizzato a traino americano. Alla Capcom si strizzava l’occhio agli USA ma inconsciamente non ci si distaccava troppo dalla morale collettivista tipicamente orientale.

Come sempre con l’avvento dei sequel il messaggio invisibile che forse involontariamente Resident Evil trasmetteva è andato perdendosi a favore di una sempre più elevata spettacolarizzazione, con qualche dovuta eccezione (Come ad esempio Resident Evil 4 e Resident Evil Village, il quale tra poco sarà giocabile anche su iPhone 15).

Albert Wesker Resident Evil
Albert Wesker è l’esempio lampante di come i giapponesi vedevano l’uomo “figo” americano.

Silent Hill utilizza invece in parte lo stesso stratagemma di Resident Evil, ma il messaggio finale è molto diverso. Marshall McLuhan, uno studioso delle comunicazioni di massa, coniò nel ’64 il concetto di Villaggio Globale, descrivendo come con il velocizzarsi dei mezzi di comunicazione le informazioni si spargessero per il mondo proprio come in un villaggio, molto rapidamente. La cittadina di Silent Hill quindi simboleggia innanzitutto un distacco da questo Villaggio Globale.

Quando Harry comincia la ricerca di Cheryl, sua figlia scomparsa dopo un incidente stradale alle porte di Silent Hill, è un uomo solo. Perfino la radio, che nel ’99 era la principale fonte di informazioni quando si era in viaggio, fa solo rumore bianco. Ed ecco che le paure primordiali dell’essere umano escono fuori, indipendentemente dal retaggio culturale ma dalle forti connotazioni giapponesi.

La solitudine, l’isolamento, la rottura dei legami parentali. In Silent Hill i mostri che vediamo non ci spaventano tanto quanto le paure che affliggono l’uomo contemporaneo che vediamo realizzarsi su schermo: Il non sentirsi più parte di una città frenetica, aver staccato dai ritmi lavorativi stressanti; a quel punto Harry affronta in qualche modo ciò che gli fa più paura: il rapporto con sua figlia adottiva.

Come in un’ipotetica marcia di redenzione, pian piano Harry entra nell’ambiente si mostruoso, ma simbolicamente anche tranquillo di Silent Hill: una cittadina che probabilmente l’avrebbe turbato anche senza tutti i tran tran satanici; perché lontano dalla vita volta allo sviluppo, al lavoro, alla crescita continua, l’uomo si ritrova ad affrontare i suoi demoni più profondi.

Una retorica questa che viene sottointesa solamente nel primo capitolo della serie, ma che poi verrà esplicitata in tutta la sua potenza espressiva nel successore, e speriamo anche nel suo remake.

silent hill harry mason
Harry Mason incarna, in qualche modo, tutti noi.

Questi che abbiamo fatto sono solamente gli esempi più palesi e famosi, ma basta guardare ad altre serie, come Parasite Eve o Fatal Frame, e di come rappresentino il “calvario dell’uno per salvare molti”, per notare come il concetto di comunità sia trattato in maniera differente ma sia sempre presente nell’Horror orientale.

Chiaramente con il passare del tempo altre saghe e singole istanze si sono aggregate all’ormai immenso filone dei “giochi di Paura”, come li chiamavano alcuni quando erano piccoli, modificando alcuni topos e aggiornandoli man mano che le paure della nostra società andavano a modificarsi. L’horror quindi si auto-aggiorna infine seguendo la cultura e la società.

È quindi importante rendersi conto di come, quando ci approcciamo ad un gioco dell’orrore fatto bene, non stiamo solamente affrontando la fantasia dell’autore, ma le paure spesso inconsce di un intero gruppo di persone culturalmente unito.