IO CAPITANO, la favola nera di Garrone, Leone d’argento a Venezia – [Recensione]

Schermata alle x

Recensione di “Io Capitano”, la favola nera di Matteo Garrone, vincitore del Leone d’argento a Venezia e proposta italiana per gli Oscar

È ufficiale che la proposta dell’Italia all’Academy per gli oscar è “Io Capitano”, il nuovo film di Matteo Garrone, Leone d’Argento a Venezia. Sono contento di questo annuncio dato che il mio giudizio sul film è assolutamente positivo. Anche se dubito che l’Academy apprezzerà questo tipo di film.

La pellicola infatti è quasi un documentario, interamente sottotitolato, che racconta l’epopea di un ragazzo senegalese che lascia il paese d’origine per migrare in Europa. La storia, per quanto “romanzata”, è completamente verosimile, e mostra tutta la tragicità di quelli che sono i viaggi di migliaia di persone che ogni giorni partono verso una speranza di futuro migliore.

L’intento di Garrone è solamente quello di mettere in scena i fatti, senza giudicare o fare il moralista. E questa scelta la trovo altamente azzeccata, in quanto il modo in cui racconta questa favola nera riesce a colpire a pieno lo spettatore, coinvolgendolo anche emotivamente in quelle che sono le atrocità del mondo moderno, andando a creare attrito con tutto quello che viviamo tutti i giorni in questo paese, tra i più coinvolti in Europa nella tematica migranti.

La narrazione di Garrone, infatti, è da un lato cruda, senza fronzoli, da un altro dolce, intima, delicata, umana. Ed è proprio quest’ultimo lato a rendere questa tragedia una storia che inevitabilmente fa empatizzare lo spettatore con i personaggi. Perché troppo spesso ci sembrano quasi tutti uguali, senza soglia del dolore, senza sentimenti o sofferenze. Invece il film pone lo spettatore dall’altro lato del Mediterraneo, dal lato di chi deve arrivare in Europa.

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E in fondo chiunque compartecipa nel suo profondo alle sofferenze di Seydou, vedendo l’umanità del personaggio, che non per fuggire dalla guerra, ma semplicemente per cercare una vita migliore, a sedici anni mette a rischio continuamente la sua vita. E anche quando si trova davanti degli ostacoli non perde mai la sua intraprendenza nel mantenere la promessa fatta al cugino. Seydou, infatti, è talmente attaccato alla vita che più volte durante il suo viaggio si preoccupa dei più deboli e di chi sta per morire.

Lo stesso passo prima del viaggio finale decide di compierlo solo con il cugino, anche se ha la possibilità di esser certo di arrivare “comodamente” insieme all’uomo che incontra in prigione e con cui giunge a Tripoli. Questa è proprio l’evento che più caratterizza l’arco evolutivo che il protagonista compie, maturando così tanto che parte da sedicenne sprovveduto, ingenuo e sognatore, arrivando poi alla fine come Capitano.

Il lato tecnico è molto suggestivo, avrei tagliato qualche minuto all’inizio, ma in generale non riesco a trovare difetti a questo film davvero toccante, che dovrebbero far vedere a scuola a chiunque voglia vivere in questa società, che purtroppo deve avere a che fare con questo fenomeno ormai inevitabile. Spero davvero che riesca a ricevere i giusti riconoscimenti e il giusto successo.

Cover Garrone

In conclusione, il film è un racconto delicato ma anche crudo dell’epopea tragica di un sedicenne senegalese che durante il viaggio compie una maturazione splendida. Garrone in modo intelligente decide di non dare giudizi o fare la morale, ma semplicemente mostrando allo spettatore le atrocità del mondo moderno, facendo inevitabilmente empatizzare lo spettatore con le sofferenze umane dei personaggi.

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“Il primo Re” – 2019


Il regista Matteo Rovere, dopo aver realizzato “Veloce come il vento” (consigliatissimo film presente su Netflix), decide di portare “Il primo Re” sul grande schermo, facendo scoprire al grande pubblico l’immensa bravura attoriale di Alessandro Borghi.

La pellicola racconta la storia dei fratelli Romolo e Remo e di come arrivano a fondare Roma. Alessandro Borghi (Remo) e Alessio Lapice (Romolo) hanno fatto un incredibile lavoro, non solo perché hanno recitato con maestria in latino arcaico ma anche perché, tramite il linguaggio del corpo e la loro espressività facciale, sono riusciti a non far pesare allo spettatore la presenza di una lingua orami morta.

Violenza, passione, amore, rivalità, religione e predestinazione, tutti temi che nessuna produzione italiana è mai riuscita a inserire in un film come Rovere ha fatto con “Il Primo Re”. La fotografia, curata da Daniele Ciprì, da un valore in più al film: la luce naturale del sole che filtra tra gli alberi e il fuoco come unico elemento di luce contro le tenebre rendono il film crudo e spaventosamente vero.

Da evidenziare l’emozionante discorso di Remo nella parte iniziale del film in cui spicca la bravura di Borghi e il solenne discorso finale di Romolo nella parte conclusiva della pellicola.

Questi due monologhi valgono l’intera visione del film.


“Lo chiamavano Jeeg Robot” – 2015 


Abituati ormai agli Avengers e alla Justice League non abbiamo mai pensato a come potrebbe essere un supereroe italiano, un “Capitan Italia”.

Ci ha pensato Gabriele Mainetti con “Lo chiamavano Jeeg Robot” a risolvere il problema. Il ruolo del cattivo viene interpretato da Luca Marinelli, mentre Claudio Santamaria è il “Superman romano”. Entrambi eccezionali e convincenti nel rappresentare una sceneggiatura che non si vede spesso nella produzione italiana, abituata a proporre la solita commedia commerciale invece di rischiare con prodotti innovativi e originali come questo film.

Enzo Ceccotti (Gabriele Mainetti), un delinquente romano, entra in contatto con una sostanza radioattiva che gli dona una forza sovraumana. Così accoglie i nuovi poteri come una benedizione per la sua carriera di delinquente ma tutto cambia quando incontra Alessia, convinta che lui sia l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’Acciaio.

Diversamente dai film della Marvel in “Lo chiamavano Jeeg Robot” non esiste il “politically correct” o una eccessiva censura; si vede finalmente il sangue e viene soprattutto mostrata la vera violenza in una immensa Roma che fa da palcoscenico alla storia del protagonista.


“Dogman” – 2018


Probabilmente uno dei migliori film italiani degli ultimi anni, sicuramente del 2018; infatti è stato premiato al Festival di Cannes e ha vinto anche 7 Nastri d’Argento, 9 David di Donatello e 3 European Film Awards.

Il regista Matteo Garrone si è ispirato ad uno dei casi di cronaca più cruenti del nostro passato recente, la vicenda del Canaro della Magliana. I due protagonisti, Marcello Fonte e Edoardo Pesce, sono formidabili nel loro ruolo e riescono a dare al film un valore aggiunto non da poco.

Viene rappresentata un’Italia diventata terra di nessuno in cui vale solo la legge cane mangia cane. Garrone mostra la crudeltà e la sofferenza nella loro forma più pura, anche la spettacolare fotografia di Nicolaj Bruel evidenzia l’angoscia e il declino di un territorio quasi abbandonato.

Marcello (Marcello Fonte) gestisce un salone di toelettatura per cani; durante le sue giornate deve destreggiarsi tra il lavoro, la figlia Sofia e soprattutto fare i conti con Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile da poco uscito di prigione e temuto da tutto il quartiere per i suoi atteggiamenti violenti.
Vittima di bullismo e soprusi, stanco di una vita di umiliazioni, Marcello decide di seguire Simoncino e di diventare il suo aiutante in una serie di rapine, finendo col tradire non solo se stesso ma anche i suoi compaesani. Il senso di colpa lo porterà ad autoaccusarsi, scontando così un anno di carcere, lontano dalla figlia. Quando ritorna decide di non farsi più mettere i piedi in testa e inizia a pensare a come vendicarsi.

Una storia che colpisce, che fa riflettere, che mostra una realtà a volte troppo sottovalutata e ignorata.