Il primo evento in Italia interamente dedicato mondo dei videogiochi arriverà a Firenze nel 2025: venite a scoprire il Florence Games Festival!
Il 29 e 30 marzo 2025, una grande novità approda nel centro fiorentino. Si tratta del Florence Games Festival, un evento completamente nuovo che rivoluzionerà il panorama videoludico italiano. Questa manifestazione nasce con l’intento di avvicinare il pubblico al mondo dei videogiochi non soltanto attraverso l’aspetto ludico, ma anche attraverso quello professionale.
Per perseguire questo scopo, l’FGF proporrà iniziative come Panel, Meet & Greet e Masterclass esclusive con ospiti internazionali di alto livello che porteranno la loro esperienza e creatività di fronte al pubblico, per due giornate ricche di incontri e approfondimenti su cosa significa essere professionisti in questo settore.
Non mancheranno i content creator italiani, che contribuiranno all’evento in qualità di appassionati e giocatori a livello sia competitivo che non. Questa dualità è pensata proprio per evidenziare il lato di intrattenimento dei videogiochi quanto quello artistico e culturale, che troppe volte rimane in secondo piano.
Sviluppato e prodotto da PopSpace.it, Smile Creative Agency e SiCrea, l’evento si terrà nei locali della Stazione Leopolda di Firenze, ambiente scelto per rappresentare l’approccio innovativo e multigenerazionale del festival. Quest’area storica, oggi completamente riqualificata, è stata la prima stazione ferroviaria costruita a Firenze, nonché uno dei primi spazi italiani a ricevere la certificazione come location sostenibile di eventi in accordo alle normative internazionali in materia di sostenibilità.
I locali della Stazione saranno adibiti a contenuti e attività sviluppate intorno ad alcuni punti focali che determinano il fulcro dell’evento in sé. Alcune aree saranno adibite alle iniziative previste dal programma, come il Main Stage e l’eSport Stage. Altre saranno invece a disposizione del pubblico per tutta la durata dell’evento. Tra queste ci saranno l’area Indie Games, l’area Free To Play, quella King of The Hill e quella Retro Gaming.
Vedete il leoncino sulla copertina dell’articolo? Beh, non posso presentarvi l’evento senza presentarvi King, che atterrerà a Firenze appositamente per il festival. Il design di questo simpatico alieno, ispirato al leone del Marzocco e al giglio di Firenze (guardate bene la sua coda) è stato disegnato da Agnese Innocente su direzione artistica di Dario Moccia.
I biglietti per l’evento, acquistabili in versione Standard, Premium e Vip, sono già disponibili su TicketOne.
Tipologie di biglietti
Standard – Ingresso giornaliero alla manifestazione
Premium – Valido per entrambi i giorni, include un token pasto, guardaroba gratuito, accesso all’area charging station e locandina ufficiale dell’evento firmata dall’artista
Vip (numero limitato) – Tutti i privilegi del biglietto premium, saltafila all’ingresso e al guardaroba, posto garantito nel pit dei palchi, acesso all’area Vip e “pressbook” ufficiale del Florence Games Festival: un albo spillato con contenuti esclusivi realizzato e spedito a domicilio dopo la manifestazione
Ecco gli ultimi aggiornamenti sulla “Nintendo Switch 2”, la console che succederà all’attuale hardware Nintendo!
Dopo anni di speculazioni, i fan della console Nintendo Switch hanno finalmente qualche informazione concreta sul suo successore, e si tratta di ottime notizie. La retrocompatibilità è diventata uno dei principali punti di forza delle console, e una delle maggiori preoccupazioni in merito all’aggiornamento dell’hardware Nintendo riguardava proprio la possibilità di poter continuare a usufruire dei giochi acquistati per la console originale anche su quella nuova.
Con un post su X (ex Twitter), il presidente della Nintendo, Shuntaro Furukawa, ha rivelato che i “software Nintendo Switch saranno giocabili anche sul successore della Nintendo Switch”, confermando le voci che sostenevano che la cosiddetta Switch 2 sarebbe stata dotata di retrocompatibilità.
E non è tutto: Furukawa ha infatti proseguito rivelando che anche il servizio Nintendo Switch Online sarà disponibile sulla prossima console Nintendo. Il post si conclude con la promessa che ulteriori informazioni sulla console e sulla sua compatibilità con la Nintendo Switch saranno annunciate più avanti.
Sebbene la maggior parte dei fan si aspettasse una qualche forma di retrocompatibilità per la Nintendo Switch 2, molti sono sollevati di averne avuto conferma. La Switch ha una vasta libreria di titoli, tra cui alcuni dei migliori giochi mai realizzati dalla Nintendo nonché titoli indie che hanno prosperato sulla console ibrida, il che significa che la Nintendo Switch 2 uscirà con una libreria di giochi già consolidata.
This is Furukawa. At today's Corporate Management Policy Briefing, we announced that Nintendo Switch software will also be playable on the successor to Nintendo Switch. Nintendo Switch Online will be available on the successor to Nintendo Switch as well. Further information about…
Un annuncio non ufficiale conferma lo sviluppo della PlayStation 6 e l’importanza che la retrocompatibilità avrà per questa console!
Secondo un nuovo rapporto pubblicato da “Reuters”, la PlayStation 6 è in fase di sviluppo e si concentrerà sulla retrocompatibilità. Forse non vi aspettavate di vedere un annuncio non ufficiale del genere proprio oggi, con tanto di dettagli su una gara d’appalto che si è svolta tra la Intel e la AMD riguardante la produzione di chip per la console.
Secondo quanto riportato da “Reuters”, nel 2022 la Intel ha perso un importante contratto per la produzione di chip per la PS6 per una serie di motivi, uno dei quali sarebbe la retrocompatibilità.
I dirigenti e gli ingegneri della Sony avrebbero espresso la preoccupazione di incorrere in problemi di retrocompatibilità se avessero abbandonato la AMD a favore della Intel. Inoltre, le due aziende avrebbero litigato sulla quantità di profitti che la Intel avrebbe ricavato da ogni chip PS6 venduto.
Di conseguenza, la Sony e la Intel non sono riuscite a trovare un accordo sul prezzo, lasciando campo libero alla AMD come produttrice di chip per la PS6, dopo il successo riscontrato con la PS5.
“Reuters” afferma che la perdita del contratto ha inferto un duro colpo alla Intel e ha chiesto un commento all’azienda, che ha fornito la dichiarazione riportata di seguito:
“Siamo fortemente in disaccordo con questa ricostruzione, ma non abbiamo intenzione di commentare le conversazioni con clienti attuali o potenziali. Abbiamo una sana filiera di clienti sia nel settore dei prodotti che in quello delle fonderie e siamo fermamente intenzionati a innovarci per soddisfare le loro esigenze.”
Secondo “Reuters”, né la AMD né la Sony hanno risposto alle sue richieste di commento.
Il videogioco horror ci parla della nostra società e di quelle altrui in un modo inaspettato e con una semplicità disarmante. Scopriamo come.
Per comprendere come la società, la cultura e il videogioco horror siano correlati, è necessario prima fare un importante parallelismo sonoro.
Nella musica, e in particolare nel Metal, esiste questa tendenza alla suddivisione più specifica possibile in generi e sottogeneri basata anche solamente sulle tematiche che l’artista va ad affrontare.
Per quel che riguarda la politica e la ribellione troviamo il Thrash Metal, c’è il Death Metal che ci racconta di violenza, morte e dolore, oppure il Black Metal che narra di temi occulti e depressione;
Molto spesso la trama musicale è identica ma da una parte troviamo il Depressive Black Metal e dall’altra il Blackened Black Metal, e così via.
Suoneranno Brutal Death Metal o Technical Death Metal?
C’è quindi una differenziazione semiotica di un contenuto che basilarmente è molto simile, o almeno all’apparenza.
Oggi vorrei applicare questo discorso ai videogiochi, in particolare a quelli che ci spaventano e ci fanno pentire di aver speso i nostri sudati risparmi per ore ed ore di paura gratuita.
Come ogni altra opera artistica, anche i videogiochi, oltre che dal genio dell’autore, sono costituiti da alcuni elementi “ambientali” che inevitabilmente li condizionano. Quelli Horror ancor di più rispecchiano paure molto spesso non solo personali, legate alla cultura e alla società di appartenenza; e così come l’amore, la paura è uno di quei sentimenti che più facilmente si manifesta inconsciamente in azioni, parole e, in questo caso, creazioni.
Un videogioco horror ci parla, in parole povere, molto di più rispetto ad altri generi, perché gli autori ci trasferiscono alcune problematiche inconsce derivanti dalla società in cui vivono e dalla cultura a cui appartengono.
Questo processo è ciò che rende l’opera un oggetto culturale a tutti gli effetti, ma partiamo dall’inizio.
Il primo videogioco considerabile da chi vi scrive un vero e proprio Horror tout court è Alone in The Dark, del 1992, il quale remake è stato da poco (purtroppo) rimandato a gennaio. Ovviamente anche in precedenza ci sono stati giochi a tema Horror, ma Alone in The Dark è stato il primo ad avere una parvenza di gameplay ad hoc, con meccanismi appositamente creati per creare tensione anche pratico, e non solo nel visivo.
Se prima ci ritrovavamo punta e clicca o Dungeon Crawler con degli orribili mostri, pur mantenendo la struttura di un’avventura grafica, Alone In The Dark utilizzava metodi quali il lento cambiamento di telecamera, gli enigmi ambientali ed i dialoghi per spaventare o perlomeno inquietare il giocatore per tutta la durata della partita. Un effetto chiaramente anche involontario, dato che la lentezza ansiogena del gameplay era dovuta anche dai limiti tecnici delle console dell’epoca.
È arduo anche effettuare un’analisi semiotica del gioco, anche se nella gestione delle tematiche troviamo molti topos della narrativa anche cinematografica del tempo: riassumendo molto, Il Detective Carnby esplora villa Derceto cercando di risolvere un delitto e durante la sua esperienza scoprirà molto di più rispetto a ciò che inizialmente si aspettava, rischiando la vita.
Edward Carnby negli anni, palesemente un Senzavolto del Trono di Spade.
Tutto l’Horror anni ’80 e primi ’90 è pregno del concetto dello “scoprire troppo”, figlio di una società e una cultura, quella americana, dell’eccesso, dove soprattutto i giovani annoiati dal loro ambiente abitudinario e tranquillo, escono dalla loro comfort zone cercando il brivido dell’ignoto esplorando zone remote dello Stato.
Pensate ad un qualsiasi Slasher del periodo e indubbiamente noterete questo schema che si ripete. Alone in The Dark è anch’esso figlio di questo stile, ma le cose stavano per cambiare, soprattutto con l’avvento delle opere del Sol Levante nel genere.
Prima però, è necessario parlare di un importante concetto: quello di relativismo culturale.
Evitando lunghi spiegoni, il relativismo culturale è quel fenomeno per il quale una stessa usanza e/o pratica viene percepita in modo differente in base alla cultura in cui viene inserita.
Un esempio possono essere i bovini: mangiati con gusto in Occidente e venerati come dei in India.
Queste differenze sono determinate da tradizioni e usanze così radicate nella società e negli uomini tanto da rendere difficile stabilirne la reale origine.
Ma ora, torniamo a noi.
1996. Esce Resident Evil. Tutti si spaventano a causa di questa specie di B-Movie USA creato però dai Giapponesi. Nasce una leggenda.
1999. Esce Silent Hill. Tutti si spaventano a causa di questo thriller angosciante su un padre USA che perde la figlia ma creato dai Giapponesi. Nasce una leggenda.
Con l’arrivo del remake di Silent Hill 2 e le già svariate ripubblicazioni di Resident Evil, si sente il riecheggiare di quella specie di “faida” che nei primi 2000 aveva colpito i fan di queste due serie.
Queste due saghe horror, indubbiamente le più importanti di quelle prodotte in Giappone, sono anche molto utili per descrivere come in Oriente il concetto di paura sia completamente differente nella società e nella cultura rispetto all’Occidente.
Da quando il genere è diventato maturo infatti, dall’America abbiamo avuto come esempi storie in cui il protagonista svolge il suo ruolo principalmente per se stesso: In Alone in The Dark, Carnby accetta il caso perché ingaggiato da un’antiquaria, perché è il suo lavoro; perfino in Doom, che non è considerabile un vero e proprio videogioco dell’orrore, noi uccidiamo i demoni perché possiamo farlo, e vogliamo farlo.
Le due saghe giapponesi invece capovolgono la prospettiva: Non è più il giocatore e il personaggio giocante al centro dell’attenzione, non agiamo per nostro diletto o soddisfazione. Le città, le altre persone, le altre vite, diventano la motivazione che ci spinge a giocare.
Salvare Raccoon City, scoprire cos’è successo sulle montagne Arklay; salvare Cheryl, scoprire perché Silent Hill è avvolta nella nebbia e piena di mostri.
Nella prospettiva occidentale, si fa in qualche modo riferimento ad un’etica profondamente individualista e a tratti capitalista: non a caso di grande ispirazione per tutto il movimento Horror USA (compreso il suddetto Alone in The Dark) fu H.P. Lovecraft, repubblicano e decisamente critico verso la seppur nascente ideologia bolscevica.
Ma allora per quale motivo i giochi dell’orrore orientali hanno avuto così tanto successo anche da noi, nonostante di base avessero una morale e un significato teoricamente così distanti?
In questo caso c’è anche un pizzico di furbizia.
Edward Said nel 1978 pubblicò Orientalismo, un libro in cui descriveva un processo che spesso viene effettuato da noi occidentali: analizzare i processi culturali completamente a noi avulsi, come quelli del mondo orientale, e codificarli secondo il nostro codice etico, la nostra cultura, morale ecc..
Resident Evil in qualche modo asseconda questo processo, utilizzando una messa in scena che più occidentale non si può, facendo continui riferimenti agli zombie movie dei decenni precedenti e stereotipando il più possibile i suoi personaggi. Eppure il concetto di base è sempre molto filo-orientale: La STARS, una squadra creata appositamente dalla polizia per risolvere problemi “complessi”, in seguito ad una missione di soccorso entra in una villa scoprendo gli inganni di una multinazionale che rischia di distruggere il mondo con un’arma batteriologica.
L’Umbrella stessa è eco di un sistema capitalistico che, seppur ormai completamente ibridato alla società giapponese, faceva storcere il naso a chi non si sentiva parte dell’ormai sistema globalizzato a traino americano. Alla Capcom si strizzava l’occhio agli USA ma inconsciamente non ci si distaccava troppo dalla morale collettivista tipicamente orientale.
Come sempre con l’avvento dei sequel il messaggio invisibile che forse involontariamente Resident Evil trasmetteva è andato perdendosi a favore di una sempre più elevata spettacolarizzazione, con qualche dovuta eccezione (Come ad esempio Resident Evil 4 e Resident Evil Village, il quale tra poco sarà giocabile anche su iPhone 15).
Albert Wesker è l’esempio lampante di come i giapponesi vedevano l’uomo “figo” americano.
Silent Hill utilizza invece in parte lo stesso stratagemma di Resident Evil, ma il messaggio finale è molto diverso. Marshall McLuhan, uno studioso delle comunicazioni di massa, coniò nel ’64 il concetto di Villaggio Globale, descrivendo come con il velocizzarsi dei mezzi di comunicazione le informazioni si spargessero per il mondo proprio come in un villaggio, molto rapidamente. La cittadina di Silent Hill quindi simboleggia innanzitutto un distacco da questo Villaggio Globale.
Quando Harry comincia la ricerca di Cheryl, sua figlia scomparsa dopo un incidente stradale alle porte di Silent Hill, è un uomo solo. Perfino la radio, che nel ’99 era la principale fonte di informazioni quando si era in viaggio, fa solo rumore bianco. Ed ecco che le paure primordiali dell’essere umano escono fuori, indipendentemente dal retaggio culturale ma dalle forti connotazioni giapponesi.
La solitudine, l’isolamento, la rottura dei legami parentali. In Silent Hill i mostri che vediamo non ci spaventano tanto quanto le paure che affliggono l’uomo contemporaneo che vediamo realizzarsi su schermo: Il non sentirsi più parte di una città frenetica, aver staccato dai ritmi lavorativi stressanti; a quel punto Harry affronta in qualche modo ciò che gli fa più paura: il rapporto con sua figlia adottiva.
Come in un’ipotetica marcia di redenzione, pian piano Harry entra nell’ambiente si mostruoso, ma simbolicamente anche tranquillo di Silent Hill: una cittadina che probabilmente l’avrebbe turbato anche senza tutti i tran tran satanici; perché lontano dalla vita volta allo sviluppo, al lavoro, alla crescita continua, l’uomo si ritrova ad affrontare i suoi demoni più profondi.
Una retorica questa che viene sottointesa solamente nel primo capitolo della serie, ma che poi verrà esplicitata in tutta la sua potenza espressiva nel successore, e speriamo anche nel suo remake.
Harry Mason incarna, in qualche modo, tutti noi.
Questi che abbiamo fatto sono solamente gli esempi più palesi e famosi, ma basta guardare ad altre serie, come Parasite Eve o Fatal Frame, e di come rappresentino il “calvario dell’uno per salvare molti”, per notare come il concetto di comunità sia trattato in maniera differente ma sia sempre presente nell’Horror orientale.
Chiaramente con il passare del tempo altre saghe e singole istanze si sono aggregate all’ormai immenso filone dei “giochi di Paura”, come li chiamavano alcuni quando erano piccoli, modificando alcuni topos e aggiornandoli man mano che le paure della nostra società andavano a modificarsi. L’horror quindi si auto-aggiorna infine seguendo la cultura e la società.
È quindi importante rendersi conto di come, quando ci approcciamo ad un gioco dell’orrore fatto bene, non stiamo solamente affrontando la fantasia dell’autore, ma le paure spesso inconsce di un intero gruppo di persone culturalmente unito.